mercoledì 31 marzo 2010

Sull'insegnamento della Merceologia in Italia 1850-1906

Interessanti notizie sulla storia dell'insegnamento della Merceologia, sui Musei e laboratori merceologici nelle Scuole commerciali in Italia dal 1850 al 1906 si trovano nel volume:

"L'insegnamento commerciale in Italia. Brevi note presentate dal prof. Giuseppe Castelli del Ministero di Agricoltura, Industria e Commercio all'VIII Congresso Internazionale per l'insegnamento commerciale, adunatosi a Milano nel settembre del 1906"

L'intero testo, di lettura un po' scomoda, si trova nel sito:
qui

martedì 30 marzo 2010

Il Museo di Merceologia di Roma

http://w3.uniroma1.it/musmerc/Index.html

Fondato il 10 novembre 1906 da Vittorio Villavecchia, il Museo di Merceologia dell'Università La Sapienza di Roma ha seguito le vicende ed i cambiamenti di sede dell'Istituto di Merceologia e della stessa Facoltà di Economia e Commercio.

Dalla caratteristica piazza Borghese, nel pieno centro di Roma, é stato trasferito (nel 1972) all'interno dell'Istituto di Merceologia della Facoltà di Economia e Commercio, in via del Castro Laurenziano 9.

Purtroppo, durante il trasferimento dell'Istituto dalla vecchia alla nuova sede, molti fra i migliori reperti sono andati smarriti o hanno subito un deterioramento irreparabile.

L'interessamento volontario del personale ha preservato il patrimonio rimasto, unico nel suo genere in questa Università , dal totale abbandono.

Nell'anno 1980 l'Istituto si é proposto di rivalutare la raccolta come bene culturale, di disposizione pubblica, consentendo l'accesso a gruppi di studenti ed a visitatori singolarmente interessati ai progressi scientifici sia nel settore della strumentazione che in quello delle apparecchiature che hanno scandito ogni comparto dell'attività economica e commerciale.

Oggi il Museo é ospitato su un'area complessiva di circa 300 metri quadri. I reperti sono esposti in un'unica sala, a piano terra, divisa in settori, visitabili seguendo un tragitto obbligato.

La descrizione completa del Museo merceologico si trova qui

venerdì 26 marzo 2010

Il Museo di Merceologia di Bari

Notizie sul Museo di Merceologia dell'Università di Bari si possono trovare nel sito qui indicato

Il primo direttore della Regia Scuola Superiore di Commercio di Bari, il grande economista Maffeo Pantaleoni (1857-1924), nella sua «relazione» inaugurale dell’anno accademico 1888 affermava: “Una Scuola Superiore di Commercio è un potente mezzo di istruzione, un focolare di scienza per gli adulti, per i commercianti che già sono nel pieno esercizio delle loro funzioni. Sono questi coloro i quali del Museo merceologico debbono approfittare; che al Gabinetto chimico devono fare appello, che alla Biblioteca devono fare ricorso; che al Professore di Merceologia e di Chimica devono chiedere le informazioni che loro mancano».

Due anni dopo la sua fondazione, nel 1886, la Scuola Superiore di Commercio possedeva quindi già un “Museo merceologico” che l'ha accompagnato in tutta la sua esistenza, quando si è trasformata in Regio istituto superiore di studi commerciali nel 1913, in Regio istituto superiore di scienze economiche e commerciali nel 1920 quando, nel 1935, fu aggregata all’Università (istituita nel 1923) e trasformata in Facoltà di economia e commercio, dal 1993 Facoltà di Economia.

Quando la Scuola Superiore è diventata Facoltà di Economia e Commercio dell’Università di Bari, nello statuto era inserito l'”Istituto di Merceologia con Laboratorio chimico e Museo” (a cui negli anni settanta è stata aggiunta la dizione “e Laboratorio per lo studio delle fonti di energia”) e questa realtà continua ancora oggi, dopo la trasformazione, nel 1982, dell'Istituto di Merceologia in Sezione di Merceologia del Dipartimento di Scienze Geografiche e Merceologiche dell’Università di Bari.

Il Museo di Merceologia dell’Università di Bari è quindi, non soltanto il primo, in ordine di tempo, museo scientifico dell’Università, ma anche il più antico Museo merceologico universitario italiano, precedente anche i musei merceologici esistenti presso altre pubbliche amministrazioni come l’amministrazione delle Dogane, gli Istituti della Nutrizione e del disciolto Ministero dell’Agricoltura e altri

Nei suoi oltre 120 anni di vita il Museo ha raccolto e possiede i seguenti materiali (sono escluse le apparecchiature relativamente moderne, posteriori agli anni settanta del Novecento):

(a) Materie prime e prodotti:

Campioni di materie prime: sale, zolfo, minerali metallici e non metallici, prodotti di cava.

Campioni di merci, specialmente, fibre tessili, filati, materie plastiche, metalli, resine, gomme, cere, sia naturali sia artificiali.

Nel corso degli anni sono stati raccolti anche campioni di prodotti alimentari, come oli e grassi, paste alimentari, legumi, specialmente quelle di interesse pugliese e meridionale, prodotti peraltro facilmente deperibili che richiedevano continuo ricambio. Alcuni campioni di grassi sono stati conservati per decenni per studiarne le modificazioni dei caratteri chimici e organolettici col passare del tempo.

Il personale dell’Istituto ha avuto sempre cura di eliminare i campioni deperibili sostituendoli con prodotti più recenti.

Importanti sono i manufatti degli anni trenta del Novecento in quanto rari campioni di “prodotti autarchici” come fibre tessili artificiali.


(b) Apparecchiature

Il Museo merceologico possiede anche una rara collezione di apparecchi e strumenti di misura di interesse storico:

---- Strumenti di misura della densità (anni trenta)
lattodensimetro di Quevenne
aerometro di Tralles
aerometro di Gay Lussac
mostimetro di Babo
bilancia di Westphal

---- Bomba calorimetrica di Berthelot-Mahler (anni trenta o quaranta) òer misura di potere calorifico superiore

--- Termometro di Beckman di precisione per la bomba calorimetrica

---- Lampada di Wood per la misura della fluorescenza (anni trenta)

---- Saccarimetro per la determinazione della concentrazione dello zucchero per via polatrimetrica (anni trenta)

---- Burrorifrattometro di Zeiss (anni quaranta)
Rifrattometro di Abbe (anni quaranta)

---- Apparecchio per fotoriproduzione Thermofax su carta termica (anni cinquanta).

---- Spettrofotometro Beckman DU (anni cinquanta) con successivi accessori per misure di attività ottica e di fluorescenza (anni sessanta).

---- Computer HP 85 (primi anni ottanta)(acquistato con un contributo del CNR)

---- Spettropolarimetro O.C.Rudolph & Sons di fabbricazione USA (metà anni sessanta)

---- Apparecchio di fabbricazione USA (acquistato con un contributo della Camera di Commercio di Bari) per misure di pressione osmotica (anni sessanta) usato per ricerche sulla preparazione di membrane semipermeabili da dissalazione.

---- Alcuni apparecchi di vetro fatti costruire per svolgere particolari ricerche (anni sessanta)
Estrattore Soxhlet di grande dimensioni per estrazioni di materiali in quantità dell’ordine di chilogrammi
Batteria di imbuti separatori per estrazione controcorrente.

---- Apparecchi usati nelle ricerche sull’energia solare:
Solarimetro di Campbell (circa 1960)
Solarimetro a cella fotoelettrica con registratore Kipp & Zonen (primi anni sessanta)

---- Dinamometro per la misura del carico di rottura di filati e tessuti.

---- Termoleometro di Tortelli (anni trenta) per la misura della purezza degli oli

---- Piaccometro (anni quaranta)

---- Fotocopiatrice Thermofax

( c ) Cataloghi di prodotti e apparecchiature

Nel Museo sono presenti cataloghi degli anni trenta e quaranta e successivi di apparecchiature da laboratorio di varie ditte italiane e straniere.

Il Museo merceologico fa ora parte del Dipartimento di Scienze geografiche e merceologiche dell'Università di Bari che ha assorbito, negli anni novanta, l'Istituto di Merceologia della Facoltà di Economia e Commercio (ora Facoltà di Economia) della stessa Università.

mercoledì 24 marzo 2010

Per una storia della Merceologia in Italia: Trieste

Bruno Stancher

BREVE STORIA DELL’ISTITUTO DI MERCEOLOGIA
Ora
DIPARTIMENTO DI ECONOMIA E MERCEOLOGIA

Il Dipartimento di Economia e Merceologia delle Risorse Naturali e della Produzione è operativo dal 1986 ed è stato istituito come naturale trasformazione dell’Istituto di Merceologia della Facoltà di Economia e Commercio (ora Facoltà di Economia).
La struttura che oggi ospita i docenti che operano nell’ambito delle Scienze Merceologiche riveste una notevole importanza storica legata agli studi economici impartiti nella città di Trieste fin da 1877. Nel 7 ottobre 1877, infatti, in occasione dell’apertura dell’Istituzione fondazione Revoltella di un Corso Superiore d’insegnamento commerciale, il prof. Augusto Vierthaler tiene l’insegnamento di Mercinomia e Chimica applicata ed in seguito di Merceologia e Chimica Tecnologica nella Scuola Superiore di Commercio di fondazione Revoltella, (nuova denominazione dal 1886).
Nel 1901, il prof. Giulio Morpurgo è chiamato alla cattedra di Merceologia e Chimica Tecnologica presso la stessa Scuola Superiore dove operò con grande impegno e prestigio.

Prof. Giulio Morpurgo
Tra le numerose e meritevoli attività del prof. Morpurgo è da ricordare la creazione, nel 1906, del Laboratorio chimico e Museo commerciale della Camera di Commercio di Trieste che per molti anni raccolse vari reperti e testimonianze dell’attività industriale e manifatturiera dell’epoca.
Nel 1914 Morpurgo fu nominato direttore della Scuola Superiore, ma durante il periodo della Grande Guerra, allontanato da Trieste dal governo austriaco, non potè impedirne la temporanea chiusura.
Nel 1918 il prof. Morpurgo, ritornato a Trieste, ebbe non solo il merito di riaprire la Scuola Superiore di Commercio, ma anche quello di trasformarla nel 1920 in Regio Istituto Superiore di Studi Commerciali con struttura triennale. Si noti che all’epoca l’insegnamento di Merceologia aveva durata biennale. La tenacia, l’abilità e la bravura del prof. Morpurgo nel 1924 è coronata dall’ambito risultato di riuscire a trasformare la Scuola in Regia Università degli Studi Economici e Commerciali che in seguito, nel 1938, diverrà Regia Università degli Studi di Trieste.
Il prof. Giulio Morpurgo fu rettore dal 1926 al 1930 e direttore dell’Istituto di Merceologia dalla fondazione fino al 1931 (anno della sua scomparsa).

Prof. Giuseppe Testoni Prof. Ferdinando Trost
Il prof. Giuseppe Testoni assume la direzione dell’Istituto dal 1931 al 1933, subito dopo subentra al suo posto il brillante allievo di Morpurgo prof. Ferdinando Trost che nel 1931 aveva acquisito la prima libera docenza e l’incarico di Merceologia. Il prof. Trost esercita la sua attività di direttore dal 1933 al 29 ottobre 1937, quando decede prematuramente in conseguenza di un’infezione contratta durante le sue ricerche in laboratorio.
Il prof. Domenico Costa, illustre merceologo e libero docente in Chimica bromatologica, è l’ideale continuatore delle mete didattico-scientifiche dei suoi predecessori e contribuisce ad implementare e rinnovare il Museo merceologico già istituito da Morpurgo. Il prof. Costa rimane alla direzione dell’Istituto di Merceologia dal 1937 al 1952.

Prof. Domenico Costa
Dopo un biennio in cui il corso di Merceologia annuale è tenuto, per incarico, dalla professoressa Elena Cerasari, nel 1954 l’Istituto di Merceologia passa sotto la direzione del prof. Claudio Calzolari.
Nel 1954 l’Istituto è confinato su un solo piano con una piccola biblioteca ed un unico laboratorio. In quegli anni il settore di ricerca più seguito è quello della caratterizzazione degli alimenti ed in particolare del caffè, in quest’ultimo settore si è lavorato per più di 10 anni. In seguito, l’interesse si è ampliato moltissimo coinvolgendo in pratica tutti i campi della Merceologia, privilegiando, in ogni caso, le tematiche riguardanti gli alimenti e la qualità dell’ambiente.

Prof. Claudio Calzolari

Il prof. Calzolari con forte spinta organizzativa introduce nella Facoltà di Economia e Commercio nuove discipline merceologiche che riguardano argomenti tecnico-economici, ambientali e di promozione della qualità in tutti i suoi aspetti. Nel 1986 (Dr. n. 87/AG dd. 24.12.1986) costituisce il Dipartimento di Economia e Merceologia delle Risorse Naturali e della Produzione (DEMREP) con la fusione dell’Istituto di Merceologia, da lui diretto, e di quello di Economia Agraria diretto dal prof. Mario Prestamburgo.
Il prof. Calzolari, nello stesso anno, attiva a Gorizia, superando le notevoli difficoltà dovute al reperimento di una sede adatta, la “Scuola Diretta a Fini Speciali per Tecnici Merceologici della Gestione Alimentare” dalla durata biennale di cui è il direttore. Dal 1990 questa Scuola viene trasformata, allargando il numero dei suoi insegnamenti, in un Corso di Laurea triennale denominato “Gestione delle Imprese Alimentari”.
Il prof. Calzolari è titolare di Merceologia presso la Facoltà di Economia dal 1954 al 1990, preside della stessa Facoltà dal 1962 al 1984, direttore dell’Istituto di Merceologia dal 1954 al 1986, direttore del DEMREP dal 1986 al 1993 e nominato prof. Emerito dal 1995. Nell’ottobre del 1995 l’Università polacca di Poznam consegna la laurea “honoris causa” a Claudio Calzolari premiando così la sua attività di apertura dell’Ateneo triestino verso le principali università dei Paesi dell’Europa centro-orientale.
Dal 1986 viene istituito presso il DEMREP il Dottorato di Ricerca in “Scienze Merceologiche” (con sede amministrativa a Trieste) la cui gestione e coordinazione è affidata al prof. Luciano Favretto, attivando di anno in anno i successivi cicli che hanno visto la partecipazione di numerosi studenti.
Dal 1999 si attiva un nuovo Dottorato di Ricerca (XV ciclo) in "Merceologia delle Risorse Naturali", il cui coordinamento è affidato al prof. Bruno Stancher (tale Dottorato rimane attivo fino al dicembre 2003). Nel 2000, dopo il pensionamento del prof. Favretto, è affidato, sempre al prof. Stancher, il compito di completare l’iter amministrativo e didattico del XIII e XIV ciclo del Dottorato in Scienze Merceologiche.
Dal 2001 il Dipartimento è sede consorziata di un Dottorato di Ricerca (XVII, XVIII, XIX, XX. XXI ciclo ecc.) in "Salubrità degli Alimenti", e dal 2003 di un Dottorato Internazionale in “Chemistry and Toxicology of Food” con sede amministrativa a Perugia.
Il prof. Luciano Favretto è direttore del Dipartimento dal 1994 al 1999.
Dal 1999, con l’entrata del prof. Roberto Della Loggia e della prof.ssa Aurelia Tubaro il Dipartimento, pur mantenendo la sua denominazione, è costituito da due sezioni: una biologica ed una merceologica.
Il prof. Roberto Della Loggia è direttore del Dipartimento dal 1999 al 2002.
Il prof. Bruno Stancher è direttore del Dipartimento 2002 al 2005.
Nel 2005 il DEMREP si fonde con il Dipartimento di Ingegneria dei Materiali e Chimica applicata (DIMCA) formando il nuovo Dipartimento dei Materiali e delle Risorse naturali (DMRN) mantenendo due sezioni una merceologica e una ingegneristica.
Il prof Bruno Stancher è attualmente vicedirettore del DMRN e responsabile della Sezione Merceologica

Per una storia della Merceologia in Italia: Roma

http://www.scribd.com/doc/28856124/storia-cattedra-roma-corazzi

Per una storia della Merceologia in Italia: Pavia

EVOLUTION AND PERSPECTIVES OF COMMODITY SCIENCE AT THE UNIVERSITY OF PAVIA

Vincenzo RIGANTI*, Vittorio VACCARI**, M. Laura GIAGNORIO***, Cristina CORDONI***
* Università degli Studi di Pavia, Dip. di Chimica Generale, Via Taramelli 12, 27100 Pavia. Telephone: +390382987345, fax: +390382528544, e-mail: riganti@unipv.it
** Università degli Studi di Pavia, Dip. di Ricerche Aziendali, Via San Felice 5, 27100, Pavia, telephone: +390382986250, fax: +390382986228, e-mail: vittorio.vaccari @unipv.it
*** Università degli Studi di Pavia, Dip. di Ecologia del Territorio, , Via S. Epifanio 14, 27100, Pavia
Telephone: +390382984851, fax: +39038234240, e-mails: marialaura.giagnorio@unipv.it; cristina.cordoni@unipv.it
Abstract: This article describes and analyses the introduction and the subsequent development of Commodity Science at the University of Pavia. The past and ongoing changes both of research themes and of courses being offered shows that the discipline has and it still experiencing a continuous evolution. This has been achieved by embracing other topics other than the quality of goods, and adopting a synergic integration of economic, environmental and social issues in parallel with the recently and universally adopted approach of sustainable development.
Keywords: Commodity Science, Integration of Environmental tools, Corporate Social Responsibility, Management systems

1. The development of Commodity Science at the University of Pavia
When at the young Faculty of Economics and Commerce of the University of Pavia, the first course of Commodity Science was introduced, this discipline was still strictly anchored to the precepts of Prof. Villavecchia (Rome University, 1859-1937): describing goods, analysing its adulterations, evaluating their diffusion in geographical terms. The evolution that will be conveyed by Walter Ciusa (Bologna University, 1906-1989) - almost a revolution, to propose the discipline as technological, environmental and economic at the same time - was at the beginning being sensed only by the most talented scholars.
It is thus not surprising if at the University of Pavia, the first one to be interested at this “new” Commodity Science was a Chemist: Giorgio Renato Levi (1895- 1965), who from the Brazilian exile, because of the racial laws, had carried out an intense industrial activity. When he came back, as Head of the Chemistry Institute, decided to introduce his most brilliant disciple, Renato Curti Magnani, to this new application path
At the Faculty of Economics and Commerce presided successively by Carlo Maria Cipolla (1922 – 2000), Napoleone Rossi (1914-1972) and Riccardo Argenziano (1913 - 2005) there was not place for a Chair of Commodity Science but only for a course: the teaching of this course was awarded to Renato Curti Magnani who taught it for about a decade. He enriched the newly born Faculty by transmitting to a discipline, already in evolution, the contribution derived from his multidisciplinary scientific activity until 1976, when he obtained the Chair of Commodity Science in Chemistry at the Faculty of Mathematics, Physics and Natural Sciences. Always vigilant to the progress of scientific thought, he used concepts to teach a research methodology, to stimulate the desire to get deeper and to widen knowledge: in a long and prolific career, from the first post obtained in 1937 to the last lecture in 1979, in more than 40 years he knew and educated thousands of pupils.

Per una storia della Merceologia in Italia: Bari

Giorgio Nebbia, "La merceologia", in: A. Di Vittorio (a cura di), "Cento anni di studi nella Facoltà di Economia e Commercio di Bari (1886-1986)", Bari, Cacucci Editore, 1987, p. 145-154



È un privilegio e una fortuna aver trascorso un terzo del secolo di vita della Facoltà come docente nella Facoltà stessa, sempre della stessa disciplina, la merceologia, della cui evoluzione a Bari vorrei ora tracciare brevemente la storia

La classe dirigente pugliese che decise, cento anni fa, di creare a Bari un centro di studi commerciali a livello universitario aveva ben presente l'importanza della conoscenza e dello studio delle merci. Il primo direttore della Scuola Superiore di Commercio, il grande economista Maffeo Pantaleoni, nella sua «relazione» inaugurale del 1888 (1) — un vero manifesto delle esigenze dell'insegnamento superiore in materia economico-tecnica — affermava: «Una scuola superiore di commercio è un potente mezzo di istruzione, un focolare di scienza per gli adulti, per i commercianti che già sono nel pieno esercizio delle loro funzioni. Sono questi coloro i quali del Museo merceologico debbono approfittare; che al Gabinetto chimico devono fare appello, che alla Biblioteca devono fare ricorso; che al Professore di Merceologia e di Chimica devono chiedere le informazioni che loro mancano».

La merceologia, nello statuto dei corsi del 1888 (che erano limitati a tre anni) figurava fra le discipline tecniche e veniva insegnata in tutti e tre gli anni.Al primo anno c'era un insegnamento di Merceologia e Chimica e, al secondo e al terzo, un insegnamento più specifico.di Merceologia.

L'attenzione per la Merceologia è dimostrata dalle parole pronunciate dal prof. Vito Giustiniani, che successe al prof. Maffeo Pantaleoni nella direzione della Scuola Superiore di Commercio di Bari, nella relazione inaugurale dell'anno 1895-96 (2): «I nostri stabilimenti scientifici crescono di anno in anno di importanza; così la Biblioteca, così il Laboratorio chimico, così il Museo merceologico. Già dallo scorso anno vi dissi che il nostro laboratorio chimico è in grado di affrontare tutte le analisi, anche difficoltose: sarà ora aumentato il corredo dei suoi numerosi apparati. Vi dissi pure del progetto del Museo merceologico. Il Consiglio direttivo ha già mantenuto la sua promessa e fra breve gli eleganti armadi, artisticamente adattati in ampio locale, saranno ripieni di merci e prodotti di ogni parte del mondo».

Il Museo merceologico con laboratorio chimico per l'analisi delle merci era previsto dallo statuto approvato con R.D. del 1886 e, attraverso un secolo, queste due componenti della Facoltà sono sopravvissute fino ad oggi. Il Museo merceologico di Bari è quindi il più antico museo del genere in Italia.

Il primo docente di ruolo di Merceologia fu il prof. Francesco Canzoneri che coprì la cattedra dal 1890 al 1927. (Dal 1886 al 1889 l'insegnamento di Merceologia e chimica fu tenuto dal dott. Isidoro Sandalli, su cui peraltro non ho trovato altre notizie). In questo lungo periodo la nostra Facoltà subì varie trasformazioni.

Con il R.D. 26 novembre 1903 la Scuola Superiore di Commercio fu autorizzata a rilasciare vere e proprie lauree. Un nuovo regolamento fu approvato con il R.D. 23 gennaio 1908. Con la legge 20 marzo 1913 il nome originale di Regia Scuola Superiore di Commercio fu cambiato in quello di Regio Istituto superiore di studi commerciali e ancora, nel 1920, in quello di Regio Istituto superiore di scienze economiche e commerciali. Con l'anno accademico 1925-26 i corsi passarono da triennali a quadriennali.

A testimonianza del prestigio goduto dalla merceologia e dal prof. Canzoneri si può ricordare che a lui furono affidate le prolusioni degli anni accademici 1910-11 («I recenti progressi della chimica applicata») e del 1918-19 («Le industrie chimiche italiane nel dopoguerra»). Al prof. Canzoneri si deve pure la monografia: «I prodotti e le industrie in Provincia di Bari», contenuta nell'opera «La Terra di Bari», in due volumi, pubblicata nel 1900 e presentata dalla Provincia di Bari alla Esposizione universale di Parigi nello stesso anno 1900.

Al prof. Canzoneri successe, come professore di Merceologia dal 1928 al 1931, il prof. Giuseppe Testoni che ebbe come giovane assistente il dottor Walter Ciusa, il quale avrebbe poi coperto, dopo un periodo trascorso all'Università di Bologna, la cattedra di Merceologia di nuovo a Bari. Al prof. Testoni fu affidata la prolusione all'anno accademico 1928-1929 ed egli scelse come argomento: «Le merci sintetiche» (3), un tema molto nuovo in quel tempo, a riprova della attualità e modernità del corso di merceologia del nuovo docente.

Dal 1931 al 1948 (con un breve intervallo di alcuni mesi del 1931 in cui la Merceologia e la Chimica merceologica furono insegnate dai dottori Antonio Laudati e Luigi Musaio) l'insegnamento di Merceologia fu tenuto dal prof. Rosario Biazzo, che è stato anche per vari anni preside della Facoltà.

In questo periodo vi sono stati altri numerosi cambiamenti nei corsi universitari di economia. Nel 1935 l'Istituto Superiore (4) diventava, con la legge del 3 giugno di quell'anno, come i simili Istituti di tutta Italia, Facoltà di Economia e Commercio, aggregata all'Università di Bari che era stata fondata fin dal 1925. Nel corso di questa trasformazione e con il nuovo statuto, sfortunatamente, diminuiva lo spazio per la Merceologia che veniva ridotta ad un solo anno di corso. A Bari tuttavia rimasero attivi e importanti il Laboratorio chimico e il Museo merceologico che ebbero nuova dignitosa sistemazione quando, nel 1936, la neonata Facoltà Universitaria si trasferì dalla sua originaria sede, nel palazzo della Camera di Commercio, alla nuova sede sul Lungomare della Vittoria (5). Nell'attico e nella torre vennero sistemati l'Istituto di Merceologia, il Museo merceologico e il Laboratorio chimico.

Quest'ultimo era così ben attrezzato che le truppe inglesi, dopo la Liberazione di Bari, nel settembre 1943, utilizzarono le sue strutture come Laboratorio chimico e merceologico per le forze armate dell'Italia meridionale.

Al prof. Biazzo successe, dal 1948 al 1953, il prof. Walter Ciusa del quale, a mia volta, sono stato assistente a Bologna e poi successore nella cattedra di Bari, un notevole esempio di continuità accademica. A Bari il prof. Ciusa ebbe come assistente il prof. Giuseppe Adamo che poi ebbe la cattedra di Merceologia (la nostra fu la prima sdoppiata in Italia), dal 1965 alla sua morte prematura, nel 1967.
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Proprio nei suoi anni baresi il prof. Ciusa elaborò quella svolta nell'insegnamento e nella ricerca merceologica che sarebbe poi stata seguita in tutte le Università italiane. Dopo la guerra, la rivoluzione tecnico-scientifica fece sentire i suoi effetti su tutte le discipline, ma in particolare sulla nostra che si occupa della produzione e della natura delle merci, cose molto mutevoli nel tempo e sensibili proprio alle innovazioni. Appariva così superata l'impostazione tradizionale, basata sulla semplice descrizione dei caratteri delle merci, e assumeva interesse lo studio dell'intero processo con cui le risorse naturali sono trasformate in merci, in prodotti commerciali.

In molti scritti ed opere, in gran parte datati proprio dal suo periodo barese, il prof. Ciusa introdusse il concetto di analisi del ciclo produttivo, che sarebbe poi diventato oggetto di studio di una disciplina autonoma. La Merceologia veniva così ad occuparsi della «storia naturale» delle merci, del ciclo di trasformazione che parte, appunto, dalle risorse della natura, passa attraverso i processi di produzione e di «consumo» e si chiude, con le sue scorie, di nuovo nell'ambiente naturale.

In queste opere del prof. Ciusa sì trovano trattati alcuni problemi che sarebbero poi diventati centrali non solo per la merceologia, ma per la stessa cultura tecnica ed economica: i concetti di utilizzazione dei sottoprodotti per evitare l'inquinamento, i problemi delle fonti di energia, l'analisi del ruolo della innovazione tecnica. Sto parlando di scritti di oltre 35 anni fa, meritevoli ancora di essere letti anche per l'attenzione alla evoluzione storica dei processi tecnici e delle merci (6). I filoni di studio e ricerca seminati dal prof. Ciusa a Bari sono stati seguiti qui da noi anche dopo il suo trasferimento all'Università di Bologna, nel 1953.

Non venivano, naturalmente, trascurati gli studi più tradizionali di merceologia. Negli anni fra il 1955 e il 1960 furono scoperte in tutto il paese numerosissime frodi alimentari e i merceologi baresi furono in prima fila non solo nel mettere a punto nuovi metodi analitici (in qualche caso ricorrendo a tecniche e apparecchiature di avanguardia e sofisticate) per svelare alcune di tali frodi (soprattutto nel campo di prodotti importanti per il Mezzogiorno e per la Puglia, come le paste alimentari, l'olio di oliva, eccetera), ma anche nell'azione di informazione dell'opinione pubblica sui danni delle frodi alimentari e nelle iniziative per ottenere leggi più moderne e rigorose. Le attuali leggi sugli alimenti risalgono proprio agli studi e alle lotte della fine degli anni cinquanta.

Nel 1962 si tenne a Bari il primo congresso nazionale di Merceologia col titolo, provocatorio e anticipatore: «Progresso tecnico e miglioramento di qualità». Alle centinaia di partecipanti, alcuni dei quali stranieri, fu chiesto di rispondere alla domanda se le innovazioni tecniche sono sempre portatrici di vantaggi per la salute e per l'uomo o se non nascondano trappole e quali. L'argomento sarebbe stato ripreso negli anni successivi con l'introduzione di un'analisi dei rapporti fra tecnica, merci e società, con una ricerca di una «tecnologia sociale», di una tecnica al servizio dell'uomo.

Negli anni dal 1953 al 1965 sono stati condotti a Bari vari studi sulla utilizzazione dell'energia solare e sulla trasformazione dell'acqua di mare in acqua potabile: fu introdotto il concetto di «fabbricazione» della merce-acqua. Tali studi furono i primi in Italia e ancora citati in molte pubblicazioni, anche straniere.

Allora occuparsi di energia solare nell'ambito della merceologia poteva sembrare una cosa stravagante. Eppure la Facoltà capì l'importanza di questi studi e inserì nello statuto, nell'ambito dell'Istituto di Merceologia, uno speciale «Laboratorio per lo studio delle fonti di energia», un'altra anticipazione di orientamenti che sarebbero stati seguiti, solo molti anni dopo, in altre Facoltà economiche.

In questo filone di interessi vivaci e nuovi fu istituita nel 1965 la prima cattedra italiana di «Tecnologia dei cicli produttivi», riconosciuta come disciplina autonoma dalla merceologia, con propri metodi di indagine, dedicata alla misura quantitativa dei flussi di materiali e di energia nei cicli natura-merci-ambiente. In questo clima l'ambiente degli studi merceologici di Bari fu tra i primi a riconoscere nei problemi della «ecologia» i rapporti con l'analisi già in corso sulle risorse naturali, sulle materie prime economiche, sui processi produttivi e di consumo, sulla generazione di rifiuti e sulla contaminazione ambientale.

Non era per fare ironia che uno degli scritti pubblicati a Bari nel 1971 sosteneva che lo studio della natura chimica, «merceologica», dei rifiuti era essenziale per il loro riciclaggio e per il corretto smaltimento e che un capitolo della merceologia avrebbe dovuto trattare di... «rifiutologia» !

Nel 1970 l'Istituto di Merceologia organizzò un congresso sul tema: «La chimica e l'ambiente», il primo di una serie molto numerosa di convegni sui temi ambientali di quegli anni. Proprio nel nostro Istituto di Bari nacquero concetti, poi largamente accolti anche nel linguaggio comune, come il «costo energetico» delle merci (inteso come la misura della quantità di energia richiesta per la produzione di una unità di peso di una merce o per una unità di un servizio), il «costo ambientale» delle merci (inteso come la quantità di agenti inquinanti generati nella produzione e nell'uso delle merci e dei servizi), come la «composizione merceologica» dei rifiuti (7).

E ancora una volta la Facoltà di Bari si rese conto che neanche in questo caso si trattava di bizzarrie e istituì, nel 1971, un corso di “Ecologia” — primo e unico in una Facoltà di studi economici — progettato proprio per le necessità degli studenti di economia.

Nel quadro di questo allargamento di interessi va vista la creazione nel 1982, del Dipartimento di scienze geografiche e merceologiche — un vero dipartimento di risorse naturali — in cui si incontrano e lavorano insieme studiosi che si occupano dei problemi del territorio anche come sede di attività economiche, delle risorse naturali, anche come fonti di materie prime per attività economiche, delle interazioni fra le attività umane ed economiche e l'ambiente. Anche questo dipartimento è unico del suo genere in Italia e la sua istituzione è praticamente coincisa con il trasferimento della Facoltà nell’attuale nuova sede di Via Camillo Rosalba.

In tutti questi anni le nostre forze sono aumentate. La prof.ssa Elsa Pizzoli copre la seconda cattedra di Merceologia dal 1967, dapprima come incaricata e, dal 1975, come professore ordinario. Ormai nell'ambito del Dipartimento il «cammino» culturale delle discipline merceologiche si svolge attraverso quattro cattedre di Merceologia, coperte dai colleghi Elsa Pizzoli, Luigi Notarnicola, Valeria Spada Di Nauta e da me; una cattedra di Tecnologia dei cicli produttivi, coperta per molti anni dalla prof.ssa Ottilia De Marco prima come incaricata e ora come professore ordinario; una cattedra di Ecologia, unica, come ho ricordato, in una Facoltà di studi economici.

È un piacere costatare che tutti ì colleghi che ho citato .— come anche il prof. Benito Leoci che è stato per molti anni assistente e incaricato nel nostro Istituto e che ora copre la cattedra di Merceologia a Salerno — sono stati assistenti nell'Istituto di Merceologia prima di salire la cattedra universitaria, anche loro partecipi della continuità scientifica che ho ricordato prima.
La sezione merceologica conta inoltre sui ricercatori dottori Gigliola Carnaggio Sancineti e Giuseppe Nicoletti.

Il laboratorio chimico è finalmente riattivato nella nuova sede, anche con la collaborazione del tecnico chimico sig. Lorenzo Colucci; speriamo di poter riaprire presto anche il Museo merceologico, più che mai attuale in questo momento di rapidi mutamenti produttivi. La signora Rosalia Perri da tanti anni ci aiuta nel nostro lavoro. Negli ultimi anni si sono aggiunte le signore Chiara Mangini e Domenica D'Auria.

Prima di concludere vorrei fare due brevi parentesi.

Nell'ambito degli studi merceologici è stata insegnata per molti anni, dal 1961 al 1969, una disciplina unica al mondo. Quando fui chiamato come professore di ruolo a Bari scoprii che nello statuto del corso di laurea in Lingue, aggregato alla Facoltà di Economia e Commercio, era inserito un insegnamento di «Storia del commercio con l'Oriente». Il titolo del corso ricalcava quello di un celebre trattato, scritto alla fine del 1800 dallo storico tedesco Guglielmo Heyd, il quale dedicava un terzo del libro alle merci oggetto di scambio fra Oriente ed Occidente nel Medioevo. Il corso non era mai stato attivato e chiesi di svolgerlo per incarico. Avevo pochi studenti, ma l'argomento era stimolante e, con la collega De Marco — che tenne il corso per un paio d'anni dopo di me — siamo stati spinti a studiare e scrivere sulla storia delle merci, delle falsificazioni e frodi e dei metodi per svelarle, un capitolo della storia della merceologia ancora in gran parte inesplorato. Abbastanza curiosamente, quando la Facoltà di Lingue è diventata autonoma, staccandosi dalla nostra Facoltà di Economia, l'insegnamento è stato soppresso addirittura dallo statuto. Il mondo è pieno di sorprese.

Un altro episodio poco noto riguarda il restauro di alcune migliaia di libri dopo l'alluvione di Firenze del 4 novembre 1966. L'alluvione, come molti ricorderanno, invase, fra l'altro, i locali e i depositi della Biblioteca Nazionale coprendo di acqua e di fango un patrimonio di libri unico al mondo. Moltissimi italiani e stranieri si sono mobilitati per lavare e restaurare i libri alluvionati. Ce ne facemmo mandare un camion anche a Bari: i libri furono lavati uno per uno, asciugati e restituiti a Firenze. Il lavoro fu lungo, paziente e faticoso, ma fortunatamente avemmo la collaborazione anche di numerosi studenti. I fogli andavano lavati e asciugati uno per uno per cui i corridoi, i laboratori e l'aula dell'Istituto di Merceologia furono pieni — qualcuno si portò una parte del lavoro anche a casa — per mesi di libri che tornarono utilizzabili dopo il drammatico bagno nell'acqua dell'Arno, frammista ad acqua di fogna e a nafta. Qualcuno ricorda ancora, a vent'anni di distanza, la puzza e il freddo — bisognava tenere le finestre aperte per accelerare l'essiccazione dei fogli e per far andare via il cattivo odore della carta fradicia — di quell'inverno. Comunque un pezzettino della cultura italiana si è salvato anche per merito nostro.

Nei giorni di gioia, come questo del centenario della Facoltà, non si può fare a meno di voltarsi a guardare indietro per ricordare le tante persone che si sono succedute nelle aule e nei laboratori dell'Istituto di Merceologia. Dei docenti non ho conosciuto, come è ovvio, il vecchio prof. Canzoneri, ma ho conosciuto il prof. Testoni, quando ero assistente a Bologna, e il prof. Biazzo, qui a Bari, quando venni da incaricato nel 1953.

Molte altre persone con cui ha lavorato sono vive e vegete, anche se ormai in pensione, il che fa pensare che il lavoro merceologico abbia benefici effetti sulla salute. È ben attivo scientificamente il mio maestro, il prof. Ciusa; sono vivi e vegeti i signori Cosimo Teodoro e Emilia Teodoro, per tanti anni bidelli dell'Istituto, a cui, come spesso capita, migliaia di studenti hanno confessato pene e timori.

Non ci sono purtroppo più il compianto collega prof. Giuseppe Adamo, che ho già ricordato e che scomparve prematuramente nel 1967. È scomparso da molti anni il sig. Francesco Di Taranto, che fu tecnico dell'Istituto con i professori Testoni, Biazzo, Ciusa e con me, che restò a lavorare con gli inglesi nell'Istituto per non abbandonarlo a mani estranee, quando i militari lo occuparono durante la guerra, e con cui ho fatto tante analisi e tante ricerche, sempre pronto a brontolare e a sgridare, ma anche ad insegnare, con infinita pazienza, i tanti segreti della sua lunga esperienza di laboratorio.

Abbiamo abbandonato, dopo mezzo secolo, il palazzo del lungomare (ma da anni l'ingresso era in Largo Fraccacreta), la prima sede della Facoltà. Vi confesso che ogni tanto torno a guardare con nostalgia, dalla strada, le terrazze del vecchio Istituto in cui feci i primi esperimenti sull'energia solare, nel 1953.

Ma, su, non c'è posto per le malinconie. Ci aspetta un altro secolo di successi, anche per la Merceologia; poco conta se nel dibattito sul futuro degli studi economici alcuni ritengono opportuno abolire questa materia dai piani di studio. L'importanza dello studio delle merci, della loro circolazione e trasformazione, il loro peso nei rapporti internazionali, ci fa sperare che quanto è stato seminato, anche a Bari, nel campo della Merceologia continuerà a dare frutti.



(1) M. PANTALEONI, Relazione sui servizi della R. Scuola Superiore di Commercio dì Bari, presentata dal Direttore al Presidente del Consiglio direttivo, Bari, 1888

(2) Resoconto sull'andamento della Regia Scuola Superiore di Commercio in Bari per l'anno 1895-1896, letto dal Direttore prof. Vito Giustiniani, Bari, 1896.

(3) Quando ho tenuto la prima lezione come professore di ruolo a Bari, nel febbraio 1959, ho scelto, in omaggio a questo mio predecessore, lo stesso argomento. Naturalmente, le merci sintetiche del 1959 erano alquanto diverse da quelle del 1929 !

(4) Nel 1929 era passato dalla dipendenza della Camera di Commercio di Bari alla dipendenza del Ministero dell'educazione nazionale.

(5) Si veda il raro volume a cura del prof. U. TOSCHI, II R. Istituto Superiore di Scienze economiche e commerciali di Bari, 1885-1933, Tipografia Cressati, Bari, 1937, 60 pp., che sarebbe opportuno ristampare.

(6) Fondamentale, ma ormai rarissimo, il libro di W. CIUSA, Aspetti tecnici ed economici dei cicli produttivi, Zuffi, Bologna, 1954. Meriterebbe una ristampa.

(7) Il termine, nato proprio a Bari, è ora così diffuso che è entrato anche nella normativa reall'applicazione della legge 915/1982 sullo smaltimento dei rifiuti !

martedì 23 marzo 2010

Io amo la ginestra

In questo gran parlare di energie e di materie prime rinnovabili forse qualche soluzione può essere cercata proprio sulla porta di casa: è il caso della ginestra che si trova, con i suoi arbusti spontanei perenni, nelle valli italiane e specialmente nel Mezzogiorno, nelle quali un mare di fiori gialli accoglie, da maggio a ottobre, i viaggiatori. Sembra che il Sole, dopo aver fatto crescere la pianta, abbia voluto, per sovrappiù aggiungere i carotinoidi per rendere ancora più belli e splendenti i suoi fiori, e un attraente profumo.

Il principale genere di ginestra diffuso in Italia ha il nome botanico Spartium junceum. La ginestra è citata dal botanico greco Teofrasto (371-187 avanti Cristo) e dal naturalista romano Plinio (23-79 dopo Cristo) il quale addirittura credeva che le ceneri della pianta contenessero oro, chi sa ?, forse ispirato dal colore oro dei fiori. La ginestra ha molte virtù ecologiche: è una leguminosa e come tale cresce fissando direttamente l’azoto atmosferico, senza bisogno di apporto di concimi azotati sintetici.

La ginestra, con le sue radici, ha un effetto stabilizzante sulle scarpate e sui fianchi delle valle e fornisce un contributo diretto e gratuito alla difesa del suolo contro l’erosione che continua a distruggere ricchezza provocando frane e alluvioni. Almeno una parte dei costi e dei dolori provocati dalle frane e dalle alluvioni, specialmente nel Mezzogiorno, avrebbero potuto e potrebbero essere evitati se si ricoprissero i fianchi delle valli con le piante che trattengono il suolo, come appunto la ginestra o la robinia. La ginestra è una interessante fonte di fibre tessili naturali rinnovabili; i Fenici, i Cartaginesi, i Greci e i Romani avevano capito che in suoi steli potevano essere utilizzati per farne canestri e che potevano fornire una fibra tessile adatta per corde; negli scavi di Pompei sono state trovate degli stoppini per lucerne fatti di fibre di ginestra.

L’utilizzazione degli steli delle ginestre a fini tessili è però rimasta limitata per molti secoli a livello artigianale e familiare, anche se fibre di ginestra sono state presentate nella Fiera Campionaria di Napoli del 1821, nelle Esposizioni di Firenze e di Napoli del 1850, 1857, 1864 e in quella di Parigi del 1878. L’interesse per le fibre di ginestra è aumentato nel periodo dell’autarchia fascista in quanto potevano sostituire, per la produzione di tele, corde e sacchi, le fibre di iuta che dovevano essere importate. Negli anni trenta del Novecento furono approfondite le conoscenze sulla coltivazione della ginestra e furono perfezionati i sistemi di produzione delle fibre. Nel 1940 funzionavano una sessantina di ginestrifici, soprattutto in Toscana, con una produzione di 700.000 tonnellate all’anno.

Dopo la Liberazione sono tornate disponibili le fibre di iuta di importazione e subito dopo c’è stato l’avvento delle fibre sintetiche che hanno oscurato l’interesse per le fibre di ginestra la cui produzione è sopravvissuta su piccola scala in poche comunità della Basilicata e della Calabria; musei della lavorazione della ginestra si possono visitare a Longobucco (Cosenza) e a San Paolo Albanese (Potenza), a testimonianza del lavoro di molte generazioni con queste fibre. La nuova attenzione “ecologica” per le fibre naturali rinnovabili ha spinto molti studiosi, anche in Italia, a riscoprire quanto era noto sulla produzione delle fibre di ginestra e sui suoi usi; un ulteriore spinta si è avuta con il lancio, all’inizio del 2009, dell’Anno mondiale delle fibre naturali da parte della FAO, l’organizzazione delle Nazioni Unite per l’agricoltura e l’alimentazione. Le fibre di ginestra si ottengono dai rami nuovi, o al più di uno o due anni, detti verbene. Le verbene devono essere sottoposte ad un processo di macerazione che decompone le sostanze pectiche che tengono “incollate” fra loro le fibre che, dopo la macerazione, vengono staccate per trattamento meccanico. Si ottengono circa 5 chili di fibre da 100 chili di verbene, la cui resa arriva a 10 tonnellate per ettaro; come sottoprodotto si ottiene un materiale adatto per la produzione della carta. Siamo quindi di fronte ad un sistema integrato che consente la difesa del suolo e la produzione di fibre tessile e carta. Le fibre di ginestra sono state utilizzate in molti campi industriali che vanno da pannelli isolanti, a componenti delle carrozzerie di automobili. E’ in corso una nuova attenzione della moda per oggetti “ecologici” a base di ginestra, come scarpe, borse, tessuti. Con i perfezionamenti tecnici già disponibili e con quelli che possono essere sviluppati, la ginestra può avere un ruolo economico e merceologico importante, con prospettive di occupazione nel Mezzogiorno.

Non sono certo solo ad amare e ammirare la ginestra. Giacomo Leopardi (1798-1837) nel 1836 osservandola sulle falde del Vesuvio le ha dedicato una celebre poesia, ”ecologica” anch’essa: ”Tu, lenta ginestra/che di selve odorate/ queste campagne dispogliate adorni”, riconoscendo la paziente resistenza della pianta nelle condizioni avverse di una arida natura, nel nome della forza della vita. E Gabriele d’Annunzio (1863-1938) nella poesia “La pioggia nel pineto” chiama le ginestre “fulgenti /di fiori accolti”. La ginestra deve essere stata amata anche da tutti gli abitanti delle valli italiane se se ne si trova così diffuso il nome in tanti paesi e villaggi. Un nome tristemente noto è quello di Portella della Ginestra in provincia di Palermo, l’altopiano in cui i banditi di Salvatore Giuliano tesero un agguato ai contadini che celebravano pacificamente e festosamente il primo maggio del 1947, uccidendone undici, fra cui due bambini. Gli altri sono nomi gioiosi come quelli, per restare al Mezzogiorno, di due paesi in provincia di Benevento e di Potenza, di Ginestra degli Schiavoni anch’essa in provincia di Benevento, del torrente Ginestra nel bacino idrografico del Calore, eccetera.

Ottilia De Marco: Merci e merceologia

http://www.ilmondodellecose.it/dettaglio.asp?articolo_id=2818%20

domenica 21 marzo 2010

Breve storia popolare dell'acciaio

Chimica News, n. 31, 22-24 (marzo 2010); Inquinamento, 52, (122), marzo 2010

Giorgio Nebbia nebbia@quipo.it

L’acciaio, il re dei materiali da costruzione, 1400 milioni di tonnellate di produzione annua nel mondo, non avrebbe potuto diventare quello che è, indispensabile per ponti, scatole di conserva, edifici, cannoni, navi, pentole, automobili, eccetera, senza una buona chimica, dapprima impiegata empiricamente poi, col passare del tempo, applicata consapevolmente anzi arricchita a mano a mano che venivano inventati processi che permettevano di ottenere più acciaio, di migliore qualità a minor prezzo.

Benché il ferro sia uno dei metalli più abbondanti sulla Terra, la chimica si è divertita a portarcelo via di mano trasformandolo dallo stato elementare in ossidi, idrati, carbonati, solfuri, attraverso il continuo contatto con l’ossigeno dell’aria e con le acque e i loro sali. Qualcuno deve avere scoperto, circa tremila anni fa, che scaldando in qualche modo quella terra rossastra si otteneva un materiale duro, un “metallo”, utile per frecce, corazze e spade, vanghe e martelli; più tardi i soliti abili cinesi e gli arabi avevano capito che la trasformazione degli ossidi in ferro era facilitata dal riscaldamento in presenza di carbone, ma soltanto nel 1600 si è cominciato a comprendere le reazioni chimiche che stanno alla base della siderurgia.

Tanto per cominciare, a capire che il carbone “portava via” l’ossigeno dagli ossidi liberando il metallo; l’operazione si poteva fare in piccole quantità per volta scaldando in piccoli forni fusori, i “bassi fuochi”, il minerale con carbone di legno, l’ingegnoso materiale ottenuto “copiando” quanto avviene durante gli incendi dei boschi. In pochi anni, nei primi decenni del Settecento, furono fatte le due scoperte fondamentali; nel 1709 Abraham Darby (1677-1717) scoprì che si poteva condurre la stessa reazione di riduzione usando, al posto del fragile e costoso carbone di legna, il carbone coke che era ottenuto scaldando in assenza di aria il carbone fossile (lo stesso principio per cui la legna si trasforma in carbone di legna). La scoperta fu motivata anche dal fatto che i primi decenni della siderurgia avevano richiesto grandi quantità di legna e i boschi stavano rapidamente sparendo, un po’ come rischia di succedere oggi col petrolio.

Del resto già nella metà del 1600 i birrai avevano scoperto che il carbone fossile usato come combustibile generava dei fumi che danneggiavano la qualità della birra e che il coke era invece un combustibile “pulito”. Il carbone coke, duro, privo di zolfo, resistente alla pressione, si prestava bene in siderurgia per la riduzione del minerale di ferro e Darby condusse la reazione in forni verticali, “altiforni”, in cui dall’alto era caricato coke e minerale e dal basso si soffiava l’aria necessaria per trasformare il coke in ossido di carbonio capace di trasformare gli ossidi di ferro in ferro fuso.

Gli altiforni furono ben presto perfezionati da Abraham Darby II (1711-1763) quando prese in mano l’azienda del padre. L’altezza dell’altoforno fu aumentata, col che era possibile aumentare la produzione di ferro di ciascuna carica, e alla miscela fu aggiunto calcare che reagiva con le materie estranee del minerale formando una massa fusa di scorie, le “loppe”, che più tardi si sarebbero rivelati utili come ingredienti del cemento: al solito un rifiuto trasformato in materia prima.

Nei primi decenni l’aria veniva insufflata fredda nell’altoforno; per diminuire il consumo di carbone, sempre nello spirito di fare di più con meno --- una pratica che era ben presente agli imprenditori anche prima dell’ambientalismo --- Jean Beaumont Neilson (1792-1865) nel 1828 brevettò l’idea di insufflare nell’alto forno aria preriscaldata col calore dei gas caldi che uscivano dall’altoforno. Per migliorare questo recupero di calore Edward Alfred Cowper (1819-1893) nel 1859 fece un’altra invenzione “verde”: dal fondo di un grande tubo metallico verticale, pieno di umili mattoni disposti in maniera alternata, i gas caldi provenienti dall’altoforno entrano, passano attraverso la massa dei mattoni, scaldandoli, e vengono fatti uscire freddi all'esterno; a questo punto i mattoni hanno immagazzinato gran parte del calore dei gas e il ciclo viene invertito; l'aria fredda esterna passa attraverso la massa di mattoni caldi, si riscalda e viene immessa, il “vento”, nell'altoforno, con cicli alternati. Con le “torri Cowper” (usate ancora oggi), fu possibile diminuire il consumo di carbone di 10 GJ per tonnellate di ghisa, un bel successo se si pensa che oggi il costo energetico della ghisa si aggira fra 15 e 20 GJ/t.

L’altoforno aveva l’unico inconveniente che il ferro assorbiva una grande quantità, fino al 5 percento, di carbonio per cui il prodotto fuso ottenuto era una lega ferro-carbonio, la ghisa o “ferraccio”, in inglese ha il dispregiativo nome di “pig iron”, meccanicamente fragile, adatta in molte applicazioni, ma non per la fabbricazione di lamiere e tubi per macchine utensili, navi e armi.

A dire la verità un chimico, René Antoine Réaumur (1683-1757), aveva spiegato già nel 1722, che la differenza fra ghisa e acciaio dipende dal contenuto di carbonio che nell’acciaio è solo dell’1 percento; nei decenni successivi furono sviluppati vari processi di trattamento della ghisa fusa in grandi padelle metalliche scaldate all’aria mediante agitazione con adatte pale azionate da speciali operai, il puddellaggio. La lenta e faticosa operazione di puddellaggio, scoperta e brevettata nel 1784 da Henry Cort (1740-1800), consisteva sostanzialmente nella combustione, per esposizione all’ossigeno dell’aria, del carbonio della ghisa; il calore di combustione teneva fusa la massa di acciaio, a mano a mano che si formava, essendo il punto di fusione dell’acciaio superiore a quello della ghisa. Una volta capito il meccanismo della reazione di decarburazione della ghisa si trattava di passare dalla lenta e costosa operazione di puddellaggio ad un sistema più rapido e meno costoso.

Il 14 agosto 1856 il quotidiano inglese “Times” pubblicò per intero la relazione presentata due giorni prima alla riunione dell’Associazione britannica delle Scienze a Cheltenham, da Henry Bessemer (1813-1898), scienziato, imprenditore e inventore del primo processo per la fabbricazione su larga scala dell’acciaio. I lettori non potevano immaginare che quell’articolo avrebbe aperto una pagina della rivoluzione chimica. Il convertitore consisteva in un recipiente a pera che poteva ruotare intorno a due perni; la ghisa calda fusa, così come usciva dall’altoforno, veniva versata nella bocca del convertitore e veniva attraversata da una corrente d’aria preriscaldata; l’ossigeno ossidava la maggior parte del carbonio; il calore di combustione teneva fusa la massa di acciaio così formato che poteva essere fatta uscire inclinando “la pera” sui suoi perni. In questo modo diminuiva il tempo di trasformazione della ghisa in acciaio e quindi il costo dell’acciaio anche perché non c’era bisogno di apporto esterno di calore.

E’ difficile immaginare oggi l’effetto che l’invenzione ebbe sull’economia inglese e mondiale e si capisce che il principale quotidiano inglese dedicasse all’invenzione la propria prima pagina. Bessemer è stato un importante personaggio e il lettore curioso potrà trovare l’autobiografia, riprodotta in Internet http://www.history.rochester.edu/ehp-book/shb/
che racconta anche come Bessemer arrivò alla sua invenzione. Un convertitore Bessemer, con cui era possibile ottenere da 10 a 20 tonnellate di ghisa per volta, fu presentato all’esposizione di Londra del 1862 e attrasse subito l’attenzione; un primo convertitore fu installato in Italia nel 1865 nelle “Officine Perseveranza” di Piombino dove esisteva un altoforno a carbone di legna. L’impianto funzionò però soltanto due anni.

Ben presto ci si accorse che il convertitore Bessemer aveva alcuni inconvenienti; il suo interno era rivestito con un materiale refrattario siliceo, acido, e non riusciva a ossidare le ghise provenienti da minerali di ferro contenenti fosforo, come quelli della Lorena. La soluzione fu offerta, come è stato ricordato nel numero scorso di questa rivista [Chimica News, n. 30, novembre 2009, p. 18-10; Inquinamento, 51, (120), novembre/dicembre 2009], dai cugini Sidney Gilchrist Thomas (1850-1885) e Percy Gilchrist (1851-1935), che nel 1878 brevettarono la sostituzione del rivestimento refrattario siliceo del convertitore Bessemer con un rivestimento refrattario basico di calcare il quale fissava chimicamente il fosforo e anzi, una volta recuperato, rappresentava una fonte di fosfati di calcio adatti come concimi; altro esempio di recupero commerciale di residui di lavorazione, quelli che oggi chiameremmo materie prime seconde.

Un altro inconveniente era che nei convertitori Bessemer il processo di ossidazione era “troppo”veloce: una carica trasformava la ghisa in acciaio in un quarto d’ora e in così poco tempo non era possibile prelevare campioni e analizzare e controllare e eventualmente correggere la composizione della ghisa. Infine il convertitore Bessemer non poteva trattare i rottami di ferro che, nella metà dell’Ottocento, cominciavano a diventare disponibili in grande quantità in seguito all’abbandono di molti manufatti di acciaio.

Per recuperare l'acciaio da questi rottami ci sarebbe voluto un forno fusorio capace di trattare insieme i rottami, la ghisa e eventualmente il minerale di ferro, in modo da ottenere acciaio e leghe di acciaio della qualità voluta. Wilhelm Siemens (1823-1883) in Inghilterra aveva inventato, nel 1857, un forno dotato di un recuperatore di calore costituito da una massa di mattoni scaldati dai gas di combustione, un po’ come il “cowper”. Il forno Siemens era stato pensato per la fusione del vetro, ma l'industriale francese, Emile Martin (1794-1871) pensò che avrebbe potuto essere applicato anche alla fusione dei rottami ferrosi e mise a punto il forno che porta il nome Martin-Siemens per la produzione dell'acciaio.

I primi forni entrarono in funzione in Francia nel 1863 e si rivelarono un successo. Il processo di trasformazione in acciaio dei rottami miscelati, in opportuna proporzione, con ghisa e con minerale, si svolgeva lentamente, in circa due ore, il che consentiva di prelevare periodicamente dei campioni del metallo fuso la cui composizione poteva essere corretta a seconda delle esigenze dei produttori; per le analisi furono sviluppati nuovi metodi rapidi il che fece fare dei progressi anche alla chimica analitica. I forni Martin-Siemens, ciascuno dei quali aveva una capacità produttiva molto maggiore di quella dei convertitori Bessemer, potevano così fornire leghe speciali e con essi l'acciaio passò dalla sua infanzia alla maturità industriale: la produzione mondiale annua di acciaio passò dalle 22.000 tonnellate del 1867 a un milione di tonnellate nel 1880 a 28 milioni di tonnellate nel 1900 (nel 2009 è stata di circa 1400 milioni di tonnellate). Il primo forno Martin-Siemens in Italia fu installato nel 1876 a Piombino.

Comunque anche il processo Martin-Siemens ebbe un suo declino e fu sostituito da due processi, quello elettrico e quello a ossigeno, tutti e due orientati ad un ulteriore risparmio energetico, ad una maggiore utilizzazione dei rottami e ad una minore utilizzazione dei minerali e della ghisa e dei relativi processi inquinanti. Ma ormai siamo nel XX secolo.

"Rassegna chimica": un ricordo

Giorgio Nebbia nebbia@quipo.it

Con il volume 51 del 1999 ha concluso la sua vita la rivista “Rassegna Chimica” che ha avuto un ruolo importante nel campo della chimica e della merceologia.

La “Rassegna Chimica” ha iniziato la pubblicazione nel 1949, in un’epoca straordinaria per la vita economica italiana. In Italia si stavano rimarginando le ferite della seconda guerra mondiale, finita appena quattro anni prima, una guerra che aveva lasciato il paese con le fabbriche distrutte, con una classe imprenditoriale ancora disorientata, con una classe operaia che si sentiva sfruttata. Un ruolo centrale nelle lotte e nelle speranze aveva “la chimica”: Marghera, Cengio, Terni, Apuania, Bussi, la “Caffaro” di Brescia, erano alcune delle “fabbriche” tradizionali da cui ci si aspettava la ricostruzione e la rinascita di questo settore industriale.

Il fondatore della "Rassegna Chimica" fu la dott. Maria Ragno che si era interessata ai problemi dell’industria chimica con due volumi: “L’industria dei saponi ed affini in Italia e all’estero”, Roma, 1936, e “L’industria italiana dei colori e delle vernici”, Roma, 1938, autrice fra l’altro di un articolo importante (e dimenticato, ma citato nel fondamentale “Montecatini 1888-1966”, di Amatori e Bezza, Bologna, il Mulino, 1990): “L’industria chimica italiana nei due dopoguerra”, L’Industria, 32, 78-89 (1947). Due anni dopo la stessa dott. Ragno assumeva la direzione di “Rassegna Chimica”, nata originariamente come voce dell’Unione Nazionale Chimici Italiani.

Renato Curti Magnani (1908-1991)

Questo notiziario si propone di ricordare i docenti e gli studiosi di Merceologia. Dopo la scheda sul prof. Walter Ciusa, viene ora proposta una breve biografia del prof. Renato Curti Magnani (1908-1981) redatta da Vincenzo Riganti, professore emerito di Merceologia nell’Università di Pavia. La scheda è già apparsa nel n. 5 della rivista telematica “altronovecento”

Vincenzo Riganti

Il prof. Renato Curti Magnani, ordinario di Merceologia nella Facoltà di Scienze Matematiche, Fisiche e Naturali dell'Università di Pavia fino al 1979. era originario del lodigiano. Era stato allievo prediletto del prof. Giorgio Renato Levi (1895-1965) e lo seguì quando, dalla cattedra di Chimica generale dell'Università di Milano, il prof. Levi si trasferì a quella dell'Università di Pavia.

Breve fu però la permanenza del prof. Levi nell'Università di Pavia: ben presto le inique leggi razziali lo costrinsero a lasciare l'Italia per l'esilio sudamericano. Se il Maestro poté trasferirsi all'estero dignitosamente, lo dovette alle premure dell'Allievo, che si adoperò in mille modi per salvaguardarne i beni e --- dopo la sconfitta del nazifascismo --- lo riaccolse quando fu reintegrato nella cattedra che era stato costretto ad abbandonare.

Ma nel frattempo Renato Curti Magnani non soltanto continuò le ricerche perseguendo ogni nuova tecnica avanzata --- dalla roentgenografia, alla polarografia, alla cromatografia --- ma svolse anche una apprezzata attività come resistente nelle formazioni partigiane dell'Oltrepò pavese.

Dopo la guerra Renato Curti Magnani fu docente di varie discipline chimiche: dalla Chimica analitica, alla Chimica generale, alla Elettrochimica, finché gli fu chiesto di insegnare Merceologia nella nascente Facoltà di Economia e Commercio dell'Università di Pavia. Arricchì la neonata Facoltà apportando ad una disciplina già allora in evoluzione il contributo che gli derivava dalla multiforme attività svolta nelle altre discipline scientifiche, fino a quando fu chiamato a coprire la cattedra di Chimica Merceologica nella Facoltà di Scienze.

Sempre attento ai progressi del pensiero scientifico, utilizzava le nozioni per insegnare un metodo, per stimolare il desiderio di approfondire e di ampliare: in una lunga e feconda carriera didattica, dal primo incarico che gli fu conferito nel 1937 all'ultima lezione cattedratica che tenne nel 1979, in un arco di più di quarant'anni conobbe ed educò migliaia di allievi.

Continuò nel frattempo la ricerca scientifica: ne danno testimonianza le sue pubblicazioni, apparse su riviste nazionali ed internazionali, molte delle quali precorritrici e anticipatrici di successivi importanti sviluppi, dalle misure dielettriche sulle soluzioni di iodio in benzene, alle ricerche roentgenografiche sui carboni colloidali, alle cromatografie sugli stereoisomeri che apparvero sul Journal of the American Chemical Society all'inizio degli anni '50, fino alle successive ricerche indirizzate a temi merceologici e tecnologici di notevole rilievo.

Mi piace ricordare che le sue ultime pubblicazioni della seconda metà degli anni '70 toccano temi quali la qualità delle acque di superficie ed il restauro delle strutture monumentali, ancor oggi attuali e vivi, a testimonianza della sua acuta sensibilità non soltanto di ricercatore nel settore della chimica merceologica ma anche di naturalista e di cultore d'arte. Egli difatti non limitò la sua attività allo specifico campo disciplinare della Chimica merceologica ma fu cultore attento e preparato delle discipline musicali, autore di volumi storici, colse meritati successi nello sci e nella motonautica, militò attivamente nella Resistenza.

Anche in questo sta il suo insegnamento: ci ha mostrato che l'uomo è veramente tale solo se è aperto a tutti gli orizzonti della vita.

Walter Ciusa (1906-1989)

Walter Ciusa (1906-1989), laureato in Chimica, è stato assistente (allora esistevano ancora) di Merceologia a Bari dal 1928 al 1931 quando l’Istituto era diretto da Giuseppe Testoni (1877-1957); è stato poi assistente di Merceologia nell’Università di Bologna fino al 1947 quando è tornato a Bari come professore di ruolo.

Erano anni ruggenti, di ricostruzione di quanto distrutto dalla guerra, ma anche di grandi speranze; l’Istituto di Merceologia di Bari si trovava nell’attico del palazzo della Facoltà di Economia e Commercio, sul lungomare, e il laboratorio chimico aveva ancora le tracce dell’occupazione da parte dell’esercito inglese che lo aveva usato dopo la Liberazione di Bari nel 1943 per le proprie analisi.

Le riviste erano poche, anche se la biblioteca possedeva ancora libri e preziose collezioni raccolte dai professori che si erano succeduti a insegnare Merceologia dal 1886 in avanti; esisteva un ricco Museo merceologico; le apparecchiature erano antiquate; alcune erano ancora quelle che Ciusa aveva usato da assistente, anni prima. Il personale era poco, un assistente, Giuseppe Adamo, un ”tecnico”, Francesco Di Taranto, un “bidello” (mi viene da sorridere usando questi termini antiquati, di una università ormai scomparsa, ma che era tutt’altro che arretrata).

Eppure, anche in quelle condizioni di fortuna, Ciusa, con due libri fondamentali, pubblicati nel 1948 e nel 1954 --- "I cicli produttivi e le industrie chimiche fondamentali", e “Aspetti tecnici ed economici di alcuni cicli produttivi" --- ormai purtroppo introvabili, impresse una svolta decisiva nel campo della Merceologia. Questa disciplina, insegnata per lo più da chimici nelle Facoltà di studi economici, per molti decenni si era arenata nella descrizione pura e semplice delle merci; Ciusa indicò che essa doveva dedicarsi piuttosto all’analisi dei “cicli produttivi”, intesi come processi di trasformazione delle risorse naturali in prodotti commerciali, da studiare nei loro bilanci di materia e di energia, con particolare riferimento al ruolo che il riutilizzo di scarti e sottoprodotti ha e avrebbe avuto nello stimolare innovazioni tecnologiche. Con questa impostazione il prof. Ciusa anticipava i problemi che sarebbero diventati centrali, alcuni decenni dopo, negli studi che si sarebbero chiamati “ambientali”.

Fra le molte ricerche sperimentali nel campo strettamente merceologico si possono ricordare quelle condotte da Ciusa su nuovi metodi di analisi fluorimetriche per svelare le frodi, che stavano dilagando negli anni cinquanta del Novecento, di molti prodotti commerciali, fra cui gli oli di oliva e le paste alimentari.

Ciusa fu poi chiamato come professore ordinario di Merceologia nell’Università di Bologna, dove rimase fino alla pensione. Professore emerito, medaglia d’oro dei benemeriti della cultura, membro di varie accademie scientifiche fra cui quella Pugliese delle Scienze di Bari e quella delle Scienze di Bologna, merita di essere ricordato per molti contributi di avanguardia, come una interessante e originale analisi del “valore” delle merci, soprattutto alimentari, sulla base delle caratteristiche chimiche ed energetiche, anche in questo caso anticipando le ricerche sul valore in unità fisiche, che sarebbero state affrontate, da molti altri, negli anni successivi. In alcune ricerche, inoltre, Ciusa scoprì e descrisse il ruolo della vitamina B1 nei processi di transmetilazione, con speciale riguardo al ruolo biologico dei metili e dei radicali liberi, oggi divenuti tanto di moda..

Come docente il prof. Ciusa ha stimolato e sostenuto, con grande generosità, i giovani collaboratori e assistenti, molti dei quali hanno successivamente coperto cattedre universitarie nelle Università di Bologna, Bari, Pisa, Pescara, Lecce e altre. Come pochi altri studiosi ha sempre incoraggiato le ricerche dei suoi allievi anche in campi “eterodossi” rispetto agli orientamenti tradizionali della Merceologia. Essendo stato suo assistente per molti anni, posso ben testimoniare il sostegno ricevuto nelle ricerche in campi come l’utilizzazione dell’energia solare e la dissalazione delle acque, temi che molti ritenevano estranei alla Merceologia; sarebbe stato necessario aspettare gli anni recenti per vedere riconosciuta l’importanza dei concetti di “merce-energia” e di ”merce-acqua” che Ciusa aveva anticipato decenni fa.

Nel suo lavoro il prof. Ciusa ha sempre prestato grande attenzione agli aspetti storici dei fenomeni di produzione e consumo delle merci. Nel 1961 ha fondato la Società Italiana di Merceologia. Gran parte degli scritti di questo importante studioso sono stati pazientemente raccolti nell’archivio biblioteca di storia contemporanea della Fondazione Micheletti di Brescia.

venerdì 19 marzo 2010

Breve storia popolare dello zucchero

Il 2011 è stato proclamato dalle Nazioni Unite anno internazionale della chimica

Chimica News, n. 29, 20-23 (settembre 2009), in: Inquinamento, 51, (118), settembre 2009

Giorgio Nebbia nebbia@quipo.it

Lo zucchero, il saccarosio, quella sostanza dai bei cristalli bianchi che mettiamo nel caffè e nei dolci, sembra, dal punto di vista della tecnologia chimica, abbastanza insignificante. Eppure la sua produzione “industriale” ha oltre duemila anni di vita e in questo lungo periodo la sua estrazione e raffinazione ha richiesto la soluzione di molti problemi tecnico-scientifici che hanno trovato applicazione in molti altri settori industriali.

Ricordo di una collega scomparsa: Ottilia De Marco

Addio a Ottilia De Marco: ecologia e idee

Giorgio Nebbia nebbia@quipo.it

L'11 dicembre 2009, all’età di 75 anni, è morta Ottilia De Marco, professore emerito dell’Università di Bari. Dotata di una buona cultura umanistica, laureata in Farmacia, ha svolto tutta la sua vita accademica in territori di frontiera.

Assistente, libero docente e poi ben presto professore ordinario di Merceologia nella Facoltà di Economia e Commercio (ora di Economia), ha affrontato i più interessanti aspetti della disciplina che rappresenta il punto di incontro fra le scienze naturalistiche e quelle economiche. Oltre che alle ricerche sperimentali, con le quali ha risolto problemi di caratterizzazione dei prodotti di commercio, il suo nome è legato a studi originali sui flussi di materiali attraverso l’economia, poi sugli effetti ambientali della produzione industriale e agricola. La prof. De Marco ha svolto importanti ricerche su nuovi processi produttivi che usano materie prime di origine agricola, biodegradabili, temi in cui ha portato originali contributi riconosciuti a livello internazionale.

Ha tenuto per molti anni anche l’insegnamento di Ecologia, l’unico esistente, dal 1973, in una Facoltà di studi economici; il suo testo “L’economia della natura”, un titolo che riecheggia la definizione dell’ecologia data dal biologo tedesco Haeckel nel 1866, tratta in modo unitario e originale gli aspetti merceologici, economici e ambientali.

La prof. De Marco si è inoltre occupata degli aspetti storici della Merceologia; ha tenuto per alcuni anni l’insegnamento di “Storia del commercio con l’Oriente”, poi inspiegabilmente abolito negli anni settanta, una occasione per studiare e far conoscere la storia delle merci, dalle pietre preziose alle droghe e spezie, scambiate per molti secoli fra l’Oriente e il Mediterraneo; le sue pubblicazioni sulla repressione delle frodi commerciali nel mondo Islamico e nel mondo medievale sono ampiamente citate all’estero.

La prof. De Marco ha sempre dedicato un appassionato impegno alla didattica e all’insegnamento incoraggiando e stimolando i collaboratori e gli studenti, svolgendo con rigore anche gli impegni amministrativi che ricadono sempre più sui docenti; inoltre è stata attiva in molte manifestazioni della vita civile di Bari. Un professore non muore mai; se è finita la vita terrena di Ottilia De Marco, il suo ricordo continua nelle molte persone che l’hanno conosciuta e resta affidato agli schedari delle biblioteche italiane a straniere che contengono le sue numerose pubblicazioni.

sabato 13 marzo 2010

Torio

Il 2011 è stato dichiarato dalle Nazioni Unuite anno internazionale della Chimica


Quando il mineralogista norvegese Jens Esmark trovò una roccia contenente un minerale che non riusciva ad identificare non trovò di meglio da fare che mandarlo al grande chimico svedese Jacob Berzelius (1779-1848) che aveva già scoperto nuovi elementi come il silicio, il selenio, il cerio. Berzelius si mise al lavoro e, nel 1828, riconobbe nel minerale la presenza di un nuovo elemento metallico che chiamò torio, in onore del dio Thor, una divinità scandinava. Il torio non ebbe grandi applicazioni per molto tempo fino al 1892 quando l’inventore austriaco Carl Auer (1858-1929) scoprì che, ponendo delle reticelle di fili di torio intorno ad una fiamma, questa reticella forniva una intensa luce bianca, migliorando l’illuminazione fornita dalle lampade a gas. Ma anche questa ondata di interesse ebbe breve vita; poco dopo venivano introdotte in commercio le lampade elettriche ad incandescenza con filamento di tungsteno che fornivano una luce intensa senza fiamma.

Dopo un altro periodo di limitato interesse commerciale il torio ha ricevuto di nuovo attenzione come possibile “combustibile”, o meglio materia prima, per i reattori nucleari. Il torio fa parte di una famiglia di elementi, chiamati ”attinidi” ad alto peso atomico, gli ultimi della tabella di Mendeleev, che si trovano subito dopo il radio (peso atomico 226 volte superiore a quello dell’idrogeno). Il primo elemento della serie è appunto l’attinio e il successivo, nella casella numero 90, è proprio il torio, peso atomico 232, dotato di un nucleo contenente 90 protoni e 142 neutroni. Fra gli attinidi si trovano tutti gli elementi coinvolti nell’energia nucleare, l’uranio e poi il nettunio, plutonio, americio, eccetera.

La scoperta della fissione nucleare, cioè della possibilità di ottenere energia dalla “frantumazione” di un nucleo atomico in nuclei più piccoli, fu fatta da Enrico Fermi (1901-1954) nel 1939; il mondo si rese subito conto che la fissione dei nuclei atomici avrebbe potuto fornire energia a fini commerciali, ma anche in forma “esplosiva” a fini militari. Stava intanto arrivando la seconda guerra mondiale e negli Stati Uniti fu avviato un programma di ricerche per studiare tutte le possibili strade con cui ottenere energia dai nuclei atomici; fra l’altro gli scienziati videro che, in seguito all’urto dei neutroni sui nuclei del torio non si aveva fissione e liberazione di energia, come nel caso dell’uranio e del plutonio, ma si aveva la formazione di un isotopo dell’uranio, l’uranio-233, che era fissile e poteva essere utilizzato come fonte di energia.

Mentre la maggior parte dell’interesse fu rivolto, dal 1943 in avanti, all’uranio e al plutonio, più “facili” da ottenere e utilizzare anche per bombe atomiche, il gruppo diretto dal fisico americano Alvin Weinberg (1915-2006) studiò dei reattori nucleari funzionanti con il ciclo torio-uranio. Furono anche costruiti dei reattori con tale ciclo; quello di Elk River, nello stato del Minnesota è abbastanza noto da noi perché l’allora Comitato Nazionale per l’Energia Nucleare aveva avviato un programma per il trattamento del “combustibile” usato in questo reattore. Il reattore funzionò soltanto dal 1962 al 1968 e fu poi abbandonato, ma intanto le sue scorie radioattive erano state spedite in Italia e sono ancora qui, a Trisaia, sul Mar Jonio, con la loro inutile e costosa e pericolosa radioattività.

I reattori funzionanti col ciclo torio-uranio furono abbandonati anche perché durante la guerra fredda fra Stati Uniti e Unione Sovietica, i due paesi avevano interesse a costruire bombe nucleari a base di plutonio e dal 1946 in avanti tutti i reattori militari e commerciali furono realizzati quindi col ciclo basato sull’uranio che forniva, come sottoprodotto, appunto il “prezioso” plutonio. La guerra fredda è finita ormai da un quarto di secolo ma i reattori nucleari continuano a funzionare col ciclo uranio-plutonio e anche quelli previsti sono a base di uranio. Gli inconvenienti dei reattori a uranio-plutonio sono molti: i costi di costruzione e di funzionamento sono elevati; le riserve di uranio sono limitate; durante il funzionamento si formano grandi quantità di scorie che restano radioattive per centinaia di secoli e che nessuna so dove mettere; c’è il continuo pericolo che il plutonio radioattivo venga rubato a fini militari o di terrorismo.

E’ perciò rinato un interesse per i reattori a torio che alcuni fabbricanti propongono come fonti di “energia nucleare verde”. Per quanto se ne sa, il torio in natura sarebbe più abbondante dell’uranio; il suo principale minerale, la monazite, è il sottoprodotto della lavorazione di sabbie contenenti minerali di titanio e zirconio e si trova in Australia, India, Stati Uniti, Canada, Norvegia, Groenlandia, Brasile, Sud Africa. Dalla monazite si estraggono già le “terre rare”, importanti metalli industriali, e il torio sarebbe quindi il sottoprodotto di attività già in corso. Il lavoro con reattori a torio-uranio sono ripresi attivamente in India, Russia, Canada. I reattori nucleari a torio sono abbastanza simili a quelli attuali; una carica di torio, addizionata con piccole quantità di uranio fissile, viene sottoposta a “bombardamento” con neutroni; il torio si trasforma in uranio-233 che subisce fissione liberando energia e con formazione di neutroni che producono altro uranio-233 e prodotti di fissione radioattivi, anche se la radioattività di tali scorie è minore e diminuisce più rapidamente di quella delle scorie del ciclo uranio-plutonio.

L’uranio-233 è fissile, e quindi adatto per bombe nucleari, ma la sua separazione e recupero è difficile perché si tratta di un elemento molto radioattivo e quindi è meno esposto a tentativi di furti e sabotaggi e a pericoli di proliferazione nucleare. E’ abbastanza evidente che, davanti alle critiche rivolte ai reattori a ciclo uranio-plutonio, il complesso militare-industriale mondiale cerca di sopravvivere tentando di presentare i reattori a torio come “verdi”. Ma “verdi” non sono affatto e gli inconvenienti dell’energia nucleare restano tutti anche col torio e non vale far credere che “questo” nucleare ci libererà dal petrolio e dal carbone senza bisogno di energie rinnovabili !

Terre rare

Dimitri Mendeleev (1834-1907), il grande chimico russo, è ricordato principalmente per aver “scritto”, nel 1869, una tabella nella quale aveva disposto in ordine di peso atomico crescente tutti i 63 elementi noti al suo tempo. A mano a mano che procedeva, quando trovava un elemento con proprietà chimiche simili a quelle di uno già incontrato, lo scriveva in una casella sotto il primo, e così via. In questo modo ciascuna riga conteneva atomi con proprietà diverse e ciascuna colonna conteneva atomi con proprietà simili. Le righe si chiamano oggi “periodi” e le colonne “gruppi”. Era una intuizione sbalorditiva: infatti quando veniva scoperto un nuovo elemento, ancora Mendeleev in vita, questo andava a collocarsi proprio in una delle caselle lasciate vuote; non solo, ciascuna posizione nella tabella mostrò di avere un significato chimico ben preciso. Immagino il dispiacere di Mendeleev nel vedere che nella sua tabella c’erano degli enormi vuoti. Dopo il lantanio, che ha peso atomico 138 (138 volte il peso dell’idrogeno) conosceva il cerio che pesava 140 (un metallo usato negli accendini a sfregamento), ma l’elemento successivo noto pesava 180. Deve essere contento, là dove ora si trova, vedendo che tutte le caselle sono state riempite e anzi che quel vuoto è ora pieno di ben 17 elementi: i primi due sono lantanio e cerio, seguiti da elementi dai nomi poetici: neodimio, promezio, samario, europio, lutezio, eccetera, chiamati, per la loro limitata diffusione, ”terre rare”.

Non varrebbe la pena di parlare delle terre rare, o “elementi lantanidi” se non fossero venuti ad occupare delle posizioni commerciali e strategiche enormi, al punto che c’è un intenso crescente sfruttamento delle poche miniere in cui si trovano a bassissima concentrazione, ”rari” appunto. Tanto per capirci ve li nomino tutti, in ordine: lantanio, cerio, praseodimio, neodimio, promezio, samario, europio, gadolinio, terbio, disprosio, olmio, erbio, tallio, itterbio, lutezio. Guardate le pale dei motori eolici che si stagliano contro il cielo delle nostre colline, ruotando lentamente e producendo elettricità. Ebbene questo è possibile perché sono stati inventati dei magneti permanenti che trasformano la rotazione delle pale in elettricità e tali magneti sono costituiti da una lega neodimio-ferro-boro contenente circa il 27 % di neodimio. La lega è stata scoperta quasi contemporaneamente nel 1982 dall’americana General Motors, dalla giapponese Sumimoto e dall’Accademia delle Scienze cinese. Una turbina da 1 megawatt di potenza contiene magneti che richiedono circa 200 chili di neodimio.

Sentite parlare delle automobili ibride, a benzina e elettriche, come la soluzione ecologica del futuro ? ebbene anche in ognuna di queste c’è un motore elettrico con magneti permanenti contenente neodimio. Le auto elettriche, poi, hanno bisogno di batterie di accumulatori a idruri di nichel che richiedono uno degli elementi delle terre rare, il lantanio, con aggiunta di praseodimio, disprosio e terbio. Il neodimio è indispensabile anche in tutti i magneti permanenti di cui siamo circondati, dalla superficie dei CD e dei DVD, a quelle strisce nere delle carte di credito, senza le quali non si potrebbero fare acquisti.

Siete contenti dei bei colori brillanti delle immagini del vostro televisore ? I vivaci toni del rosso sono possibili perché il rivestimento del video contiene europio. I grandi progressi degli schermi di computers e di telefoni cellulari con cui si può comunicare col tocco di un dito sono stati resi possibili da rivestimenti di ossido di indio e stagno. Senza contare l’uso del lantanio nella raffinazione del petrolio e di terre rare nelle ultrasofisticate apparecchiature militari.

La richiesta dei metalli delle terre rare sta rapidamente aumentando e aumenta anche il prezzo dal momento che il monopolio della loro estrazione è cinese, e i cinesi fanno sapere di voler limitare l’esportazione delle terre rare per usarle tutte nei loro grandi progetti di diffusione dei motori eolici e di sviluppo dell’elettronica di consumo che producono e esportano in tutto il mondo. Oltre il 90 per cento di tutte le terre rare prodotte nel mondo, poco più di 100.000 tonnellate all’anno, sono estratte da una grande miniera che si trova a Bayanobo nell’altopiano della Mongolia. La Cina produce il 100 percento delle tre terre rare più “strategiche”: disprosio, terbio e europio, assorbe il 60 % della propria produzione e esporta il resto, ma il grande paese è in rapida espansione e si prevede che aumenterà l’uso interno e diminuirà l’esportazione di terre rare.

Si può immaginare che i paesi occidentali siano ben preoccupati e cerchino altri giacimenti dei minerali da cui è possibile estrarre terre rare. A Mountain Pass, in California, c’è una grande miniera che, negli anni ottanta, era arrivata a produrre 20.000 tonnellate all’anno di lantanio e ossidi misti di neodimio e praseodimio; fu poi chiusa nel 2002 quando la Cina cominciò a invadere il mondo con le proprie terre rare a basso prezzo. Altri giacimenti da cui estrarre terre rare, ma con maggiori costi, si trovano in Canada, in Australia, in Russia; per inciso i minerali contenenti terre rare sono accompagnati da altri contenenti gli elementi radioattivi torio e uranio. Se cesseranno le esportazioni cinesi di terre rare aumenterà il prezzo di molte apparecchiature elettroniche, dei motori eolici e delle tanto attese auto elettriche. Inutile dire che c’è una grande agitazione nei mercati mondiali dei metalli e una febbrile ricerca di nuove leghe adatte per la fabbricazione di magneti permanenti. Una di queste è costituita da cobalto e samario che però è anche lui un elemento delle terre rare. Insomma gli elementi che Mendeleev non conosceva si stanno rivelando più preziosi dell’oro e dei diamanti.

Gomma guayule

Il giovane storico Alberino Cianci nel 2008 ha pubblicato il bel libro: “SAIGA. Il progetto autarchico della gomma naturale. Dalla coltivazione del guayule alla nascita del polo chimico di Terni”, (casa editrice Thyrus, di Arrone (Terni) (www.edizionithyrus.it)), nel quale è stata ricostruita una pagina dimenticata della storia dell’industrializzazione italiana, nel turbolento periodo dell’autarchia fascista. Sulla base di un prezioso archivio, salvato fortunosamente, il libro tratta la storia dei tentativi di coltivazione, in Italia o nelle colonie italiane del tempo, di piante da gomma diverse dall’Hevea, l’albero che forniva e fornisce praticamente tutta la gomma naturale nel mondo e che cresce bene in climi tropicali.

Nel 1933 l’Italia dipendeva completamente per le importazioni di gomma dalle piantagioni di Hevea del Brasile e del sud-est asiatico, nelle mani delle grandi potenze coloniali, con le quali il governo fascista pensava o progettava di scontrarsi un giorno. Si sapeva che la gomma poteva essere ottenuta da piante e arbusti coltivabili in climi temperati e che alcune piantagioni erano in corso in Russia e in America; negli Stati Uniti la coltivazione di una di queste piante, il guayule, e l’estrazione della gomma erano effettuate dalla Intercontinental Rubber Company, presso la quale furono inviati alcuni tecnici italiani.

Nel 1936, subito dopo la conquista dell’Etiopia e le sanzioni economiche contro l’Italia, il governo fascista avviò contatti con la società americana per vedere se era possibile coltivare il guayule in Libia o in Sardegna o in Basilicata o in Puglia. La Intercontinental inviò in Italia un suo addetto che visitò le varie regioni e ne studiò le condizioni agronomiche; fu così stipulato un contratto (per alcune diecine di milioni di lire, che allora erano tanti soldi) secondo cui la società americana avrebbe inviato semi e piantine di guayule e collaborato alla loro messa a dimora. Di tutto questo ci sono lettere, telegrammi, fatture e resoconti nell’archivio studiato e descritto da Cianci. Nel 1937 fu creato un “Ente gomma guayule” e fu costituita, dalla Pirelli e dall’IRI, la SAIGA (Società Anonima Italiana Gomma Autarchica); fra i consulenti e gli amministratori figuravano nomi illustri come i chimici Bruni, Natta, Francesco Giordani e il finanziere Enrico Cuccia, futuro presidente di Mediobanca.

Falliti i tentativi di coltivazioni del guayule in Libia, nel 1938 furono acquistati alcuni terreni a sud di Cerignola, in Puglia, dove fu creato un vivaio in cui furono piantate, nella primavera del 1940 (poco prima che l’Italia entrasse nella seconda guerra mondiale), 25 milioni di piantine di guayule ottenute con i semi selezionasti fatti venire dalla California, da cui ci si sarebbe dovuti aspettare una produzione di mille chili di gomma per ettaro. Negli anni successivi (l’Italia era in piena guerra) la mancanza di carburante, di personale, di macchinari portò lentamente al fallimento e all’abbandono delle piantagioni foggiane di guayule. Nel 1944 i terreni destinati alla produzione della gomma furono occupati dagli Alleati e riconvertiti a cereali. Le proprietà della SAIGA a Cerignola furono vendute all’Opera Nazionale Combattenti e nel 1947 la SAIGA fu messa in liquidazione.

Intanto fin dal 1939 la SAIGA era stata incorporata in un’altra società, sempre della Pirelli-IRI, la SAIGS (Società Anonima Italiana Gomma Sintetica), che nel frattempo si era orientata verso la produzione di gomma sintetica dal butadiene; la SAIGS costruì una fabbrica della materia prima a Ferrara, in una zona dove esistevano molti zuccherifici; lo zucchero veniva trasformato in alcol etilico, e questo trasformato in butadiene. Il complesso di Ferrara fu acquistato dalla Montecatini e la produzione della gomma sintetica fu trasferita a Terni, deve era disponibile abbondante elettricità; qui il butadiene era ottenuto dall’acetilene a sua volta ottenuto dal carburo di calcio prodotto al forno elettrico. L’impresa cessò nel 1943. Dopo la guerra a Terni nacque un grande polo chimico della Montecatini/Polymer che a sua volta cessò di esistere nel 1977. L’archivio della SAIGA/SAICS sopravvisse a queste vicende, fu trasferito da Ferrara a Terni e qui fu salvato da un dipendente diligente e lungimirante che l’ha messo a disposizione dell’autore del libro prima citato.

E qui vengono spontanee alcune osservazioni; si parla tanto di conservazione dei “beni culturali”, intesi come le testimonianze della ricca storia italiana, ma non ci si accorge che stanno scomparendo o sono irrimediabilmente scomparsi archivi e raccolte di documenti, lettere, schemi di produzione relativi alla storia industriale del nostro paese. Non tanto quelli delle grandi industrie, alcune delle quali hanno un proprio archivio storico, ma delle innumerevoli imprese medie e piccole che pure hanno avuto un ruolo importante nella produzione e nel lavoro: è anche questa “cultura”. Per caso qualche raccolta di documenti viene recuperata o salvata e qualche volonteroso studioso si dedica a darne notizia e qualche benemerita piccola casa editrice li pubblica.

L'allume e le scomuniche merceologiche

L’allume è noto fin dall’antichità: ne parla Plinio (23-79 d.C.) nella sua grande enciclopedia merceologica intitolata “Storia naturale” (che ha avuto finalmente una buona edizione italiana, pubblicata da Einaudi). L’allume era ed è una merce molto importante: è impiegato per fissare i colori sulle fibre tessili, per la concia delle pelli, in medicina, per rendere resistenti al fuoco i tessuti e il legno e, adesso, nella produzione della carta e nella depurazione delle acque.

L’allume è un sale costituito da solfato di ammonio e potassio con 24 molecole di acqua di cristallizzazione; si presenta in bei cristalli bianchi e trasparenti, solubili in acqua. Qualche lettore ricorderà forse di averne visto dei pezzi in casa, usati per fermare il sangue, e chiamati “allume di rocca”, forse dal nome di una città dell’Asia Minore. A causa della sua solubilità in acqua in genere l’allume non si trova in natura (le piogge l’avrebbero disciolto nel corso dei millenni), ma viene prodotto artificialmente per trasformazione di minerali di alluminio meno solubili, come la allumite o alunite, un solfato basico di alluminio e potassio.

Nel Medioevo l’allume era prodotto principalmente in Asia Minore dove si trovano grandi giacimenti di allumite; le imprese operavano con capitali e tecniche per lo più genovesi o veneziani e alcuni imprenditori industriali e finanziari avevano accumulato grandi fortune con questa materia prima essenziale, un vero materiale strategico.

Con la conquista dell’Asia Minore da parte dei Turchi di Maometto II, nella metà del 1400, le zone minerarie caddero nelle mani degli “infedeli”, creando difficoltà di approvvigionamento dell’allume alle industrie europee. Un certo Giovanni da Castro, costretto ad abbandonare la sua industria dell’allume in Asia Minore, girando per i monti della Tolfa, paese d’origine della madre, a nord ovest di Roma, nello stato pontificio, osservò nel terreno formazioni minerarie simili a quelle da cui veniva estratto l’allume in Turchia: anche le piante e i fiori erano simili. E’ questo uno dei primi esempi di applicazione della geobotanica, la scienza che consente di riconoscere i minerali sotterranei dai caratteri e dalla composizione delle piante esistenti in superficie.

Da Castro prelevò il minerale, lo fece analizzare, condusse delle prove di estrazione dell’allume --- oggi si direbbe che fece fare delle prove di laboratorio, ma siamo nella metà del 1400 ! --- e vide che effettivamente, per trattamento del minerale, si poteva ottenere allume di buona qualità. Da Castro propose al Papa di impiantare un’industria in concorrenza con i Turchi: Pio II (quell’Enea Silvio Piccolomini, 1405-1464, che fu papa dal 1458 al 1464) capì subito l’importanza dell’impresa e gli affidò il monopolio della produzione e del commercio, riservandosi un’imposta sull’allume prodotto.

Nel 1463, appena dieci anni dopo la conquista di Costantinopoli da parte dei Turchi, l’allume “cristiano” era già prodotto industrialmente a Tolfa con l’impiego di alcune centinaia di operai. Il ciclo produttivo consisteva nell’escavazione dell’allumite, nel riscaldamento ad alta temperatura, in adatti forni, del solfato basico di alluminio e potassio. Il minerale “cotto” veniva poi trattato con acqua: il materiale inerte veniva separato e la soluzione acquosa veniva scaldata e concentrata fino a quando non cominciavano a separarsi i cristalli di allume.

Il papa Paolo II (1417-1471, papa dal 1464 al 1471) nell’aprile 1465 promulgò un anatema “merceologico” che imponeva ai cristiani di tutta Europa, pena la scomunica, di usare soltanto l’allume papale. La scusa era costituita dal fatto che i proventi delle imposte sull’allume erano destinati a finanziare una grande crociata contro i Turchi. Con questa imposta sulle esportazioni di una materia prima ottenuta in condizioni di monopolio i papi si procuravano soldi più o meno con la stessa logica con cui operano i paesi esportatori di petrolio.

L’unico concorrente importante era il regno di Napoli che produceva allume ricuperando i cristalli esistenti nella solfatara di Pozzuoli; nel 1470 il papa Paolo II e Ferdinando II di Napoli firmarono un accordo per regolare la produzione e la vendita dell’allume per 25 anni, una vera multinazionale monopolistica. Più tardi i papi ottennero la chiusura delle miniera di Pozzuoli per operare a Tolfa in condizioni di monopolio assoluto.

Ben presto, però, anche come ribellione ai papi di Roma, i paesi industriali dell'Europa del Nord, soprattutto l’Inghilterra e i Paesi Bassi, consumatori di allume, cercarono delle fonti alternative (anche con accodi con l’odiato “turco”) e si misero a produrre allume in concorrenza con quello papale. L’affare era considerato così importante che il “peccato” consistente nell’uso di allume diverso da quello dei papi era escluso da quelli condonabili a pagamento, previsti dall’indulgenza del 1517 di Leone X (Giovanni de’ Medici, 1475-1521, papa dal 1513 al 1521). Per inciso fu proprio questo documento papale che spinse l’indignato Martin Lutero (1483-1546) ad appendere, il 31 ottobre dello stesso anno, alle porte della chiesa di Wittenberg, le 95 tesi sulle indulgenze, da cui nacque la Riforma protestante.

Alla famiglia Da Castro erano intanto succeduti, nella conduzione delle miniere e nella riscossione delle imposte per conto del papa, i Chigi che già avevano l’appalto delle tasse dello stato pontificio. Nel 1517 Leone X concesse ad Agostino Chigi lo sfruttamento delle coltivazioni, il che suscitò gravi contrasti con i Frangipane di Tolfa. Agostino Chigi riorganizzò la produzione dell’allume con criteri industriali più moderni; grazie a compiacenti leggi, a Tolfa furono attratti operai e tecnici ai quali venivano condonati i reati commessi e ben presto la popolazione della cittadina aumentò. Per evitare le continue liti fra gli operai immigrati e gli abitanti di Tolfa, i Chigi costruirono, a pochi chilometri di distanza, una “new town”, una città operaia in senso moderno, l’attuale Allumiere, indicata anche come “Allumiere delle sante crociate”. Ed effettivamente i proventi di questo monopolio finanziarono almeno in parte l’ultima crociata, organizzata da Pio V Ghisleri (1504-1572, papa dal 1566 al 1572), che, con la battaglia di Lepanto del 7 ottobre 1571, ridimensionò la presenza dei Turchi nel Mediterraneo.

La città comprendeva abitazioni e officine ed era dominata dal “palazzo camerale” il bell’edificio cinquecentesco ancora al centro dell’attuale Allumiere, dove avevano sede i magazzini, gli uffici delle imposte e le abitazioni dei dirigenti. I concessionari dell’allume potenziarono il porto di Civitavecchia, ma non perdevano occasione per frodare il papa, dirottando l’allume verso altri porti d’imbarco in cui si potevano evadere le imposte. Le tecniche di estrazione del minerale e di produzione dell’allume furono perfezionate a razionalizzate. L’acqua dei torrenti fu canalizzata e utilizzata per il trattamento del minerale: fu costruita una diga che consentiva di azionare un mulino. E’ ancora possibile riconoscere nel territorio, e in parte anche visitare, le miniere, i forni., e le “vasche” di lisciviazione dell’allume.

Si ebbero anche dei fenomeni di inquinamento ambientale, scoperti di recente da alcuni ricercatori che studiavano la zona per conto della Provincia di Roma; i residui della “cottura” dell’allume venivano scaricati sul greto di un torrente che così diventò impermeabile e si trasformò in una palude che solo più tardi è stata prosciugata e bonificata.

La fortuna di Allumiere raggiunse il suo massimo nel 1500; a partire dal 1600 i principali paesi consumatori di allume trovarono altre fonti di approvvigionamento e la produzione di Allumiere diminuì di importanza; questa produzione comunque era descritta ancora nei trattati minerari del 1700. Le miniere passarono poi alla Camera Apostolica, poi ad una società francese e quindi alla Montecatini e furono abbandonate prima della II guerra mondiale.

Per finire vorrei citare quattro “libri sommersi”, molto interessanti, ma purtroppo difficilmente reperibili. Il primo è una storia dell’impresa di De Castro e dei suoi finanziatori portoghesi, anche in questo caso una vera multinazionale, ed è stato scritto da Gino Barbieri (1913-1990), per molti anni professore di Storia economica nelle Università di Bari e di Verona. Il libro è intitolato “Industria e politica mineraria nello stato pontificio dal ‘400 al ‘600”, Roma, Cremonese Libraio Editore, 1940, 278 pagine.

Il secondo libro, con molti capitoli dedicati proprio ad Allumiere, è stato commissionato da una ditta inglese di prodotti chimici, Peter Spence & Sons Ltd., al noto storico della tecnica Charles Singer (1876-1960) per celebrare, con una monografia sulla storia della loro principale merce, appunto l’allume, il centenario della fondazione. Il libro, un bel volume ricco di illustrazioni, è intitolato: ”The earliest chemical industry. An essay in the historical relations of economics and technology as illustrated from the alum trade”, London, The Folio Society, 1948, 338 pagine.

Molte utili notizie su Allumiere e sul suo ruolo nell’industria nascente sono contenute nel volume: Mario Di Carlo e altri (a cura di), ”La società dell’allume. Cultura materiale, economia e territorio in un piccolo borgo”, Roma, Officina edizioni, 1984, 111 pagine, con molte illustrazioni. Il bel libro, ricco di notizie storiche e tecniche, fu pubblicato per conto dell’Assessorato alla sanità e all’ambiente della Provincia di Roma.

Berillio

Mezzo secolo fa Isaac Asimov (1920-1992) ha scritto una storia di fantascienza in cui racconta che un equipaggio è stato inviato su un pianeta, Sucker Beit, apparentemente fertile, con condizioni simili a quelle terrestri, abbondante vita vegetale, che sembrava ideale per l'insediamento di una colonia umana, per scoprire la causa della morte misteriosa dei componenti di una spedizione precedente. La morte è risultata provocata da una malattia che si manifestava con una progressiva difficoltà di respirazione e che si era poi rivelata come dovuta all'alta concentrazione di berillio su tale pianeta.

La berillosi è effettivamente una nota malattia professionale che si manifesta con l'infiammazione dei polmoni che riduce o impedisce la respirazione. Alla berillosi, difficile da curare ma fortunatamente abbastanza rara, sono esposti i lavoratori di alcuni settori industriali che impiegano il metallo, le sue leghe e i suoi ossidi, per esempio negli addetti alla fabbricazione delle lampade fluorescenti il cui interno era rivestito di ossido di berillio.

Il berillio è chimicamente legato al magnesio e si trova nella stessa colonna della tabella di Mendeleiev e può sostituire il magnesio, un elemento essenziale per la vita, in alcuni enzimi.

Il berillio --- il cui simbolo chimico è Be --- è un metallo relativamente raro; nel corpo umano in media se ne trovano circa 0,03 mg; nei mari e negli oceani la concentrazione di questo metallo è di circa 0,03 mg per metro cubo; nelle rocce terrestri il contenuto medio di berillio è di circa 2 mg per tonnellata.

Per l'ottenimento industriale del metallo si parte da alcuni minerali, fra cui il berillo, un silicato di berillio e alluminio, che è anche usato come pietra preziosa e ornamentale. La varietà colorata di verde per la presenza di tracce di cromo prende il nome di smeraldo; la varietà dotata di un colore bleu pallido si chiama acquamarina.

I principali paesi produttori di minerali di berillio sono il Brasile, la Repubblica sudafricana, l'India, l'Argentina, il Mozambico. Per estrarre il metallo i minerali ricchi di berillio sono scaldati ad alta temperatura e poi trattati con agenti chimici in modo da trasformare il berillio in fluoruro o in solfato, che sono solubili in acqua; dalle soluzioni viene separato, con processi chimici o fisici, o il metallo o l'idrato, da cui successivamente si prepara l'ossido.

Industrialmente il berillio è importante perché è l'unico metallo leggero (la sua massa volumica è di 1,85 g/cm3) dotato di un'elevata temperatura di fusione (oltre 1250 gradi Celsius) e perché non è attaccato né dall'aria né dall'acqua, neanche ad alte temperature. Per esposizione all'aria si forma sulla superficie del berillio un leggero strato di ossido che protegge il metallo dal successivo attacco di agenti esterni.

Il berillio viene usato, in generale in lega con altri metalli, specialmente nelle leghe "leggere" con alluminio e magnesio, nell'industria aeronautica e spaziale per la sua elevata resistenza all'usura e per le sue doti di conducibilità termica. La sua lega col rame presenta elevata conducibilità elettrica ed è largamente usata nell'industria petrolifera per strumenti nei cui contatti non si devono formare scintille che potrebbero infiammare i gas combustibili.

Oltre che come metallo il berillio trova impiego come ossido, una sostanza dotata di elevata temperatura di fusione, di elevata conducibilità termica e di bassa (a differenza del metallo) conducibilità elettrica. Trova perciò impiego negli isolatori elettrici e nei transistor di potenza. L'ossido di berillio viene usato anche nell'industria ceramica.

Il berillio ha la proprietà di non assorbire i neutroni, ma di rallentarne la velocità, per cui i fabbricanti di bombe nucleari e di centrali nucleari usano il berillio e il suo ossido per i contenitori del materiale fissile --- uranio o plutonio --- o come "moderatore". In alternativa si può usare zirconio, che non è tossico, ma è molto più pesante. Proprio in una fabbrica militare di armi nucleari in Russia si è verificata, nell'ottobre 1990, un'esplosione che ha gettato nell'aria una "nube" di ossido di berillio che ha contaminato la zona circostante, al confine con la Cina, e i suoi abitanti.

Il berillio ha anche interesse come indicatore geologico; oltre al berillio ordinario, che ha peso atomico 9, esiste un isotopo radioattivo, il berillio-10, che si forma dalla collisione dei raggi cosmici con i gas dell'alta atmosfera. Nel 1990 la concentrazione di berillio-10 è stata misurata nei vari strati del ghiaccio dell'Islanda; le analisi hanno mostrato che, negli ultimi due secoli, la concentrazione di berillio-10 risulta maggiore quando aumenta la "attività" del Sole, per cui la misura della concentrazione di questo isotopo radioattivo può essere utile per avere informazioni sulla storia climatica della Terra.