ecole, N.S. 1, (1),
36-37 (gennaio 2001)
Giorgio Nebbia nebbia@quipo.it
Nel
corso del Settecento l’Europa fu invasa da un mare di nuove merci: il coke e il
catrame ottenuti dal carbone, nuovi tipi di ferro e acciaio, la soda
artificiale, i coloranti provenienti
dall’America e dall’India, la gomma importata dal Brasile, nuove fibre tessili
e alimenti sconosciuti come la patata e il pomodoro e il mais, il caffè
proveniente dall’Arabia e dall’Africa. Ciascuna merce con le sue brave frodi,
tanto che fare il mercante diventava una cosa sempre più difficile e richiedeva
informazioni e consigli ottenibili dalla botanica, dalla chimica, dalla
mineralogia. Le tecniche di trasformazione delle varie materie apparivano, ai
filosofi, così affascinanti da meritare una enciclopedia, quella appunto delle
arti e dei mestieri, che saldava le scienze con le pratiche manifatturiere e
commerciali. Tanto che, alla fine del Settecento, un professore tedesco di
economia, agraria (e anche curioso cultore di storia delle invenzioni), un
certo Johann Beckmann (1739-1811), suggerì che i commercianti avevano bisogno
di qualcuno che gli insegnasse, a livello universitario, i caratteri e i nomi
delle merci nell’ambito di una disciplina autonoma che Beckmann chiamò
Warenkunde, in italiano “merceologia”.
I
primi decenni dell’Ottocento videro sorgere le prime scuole politecniche, le
prime scuole di commercio, la chimica e la fisica sembravano mantenere le
promesse di nuove forme di energia come l’elettricità, di nuovi prodotti come
il cloro, lo zucchero, l’acido solforico, i concimi. L’economia poteva
progredire soltanto utilizzando le cose offerte dalla natura e trasformate
dall’ingegno umano. Erano le cose che contavano e non a caso qualsiasi trattato
di economia, da Adamo Smith a Marx, cominciava con un capitolo intitolato: “Le
merci”. E Marx riconobbe la grande importanza delle cose materiali rispetto ai
soldi, tanto che nel primo libro del ”Capitale” comincia proprio spiegando che
le merci hanno un valore di scambio, misurato dal denaro scambiato per
ottenerle, e un valore d’uso. E continua sostenendo che non intende trattare
del valore d’uso, perché se ne occupa una speciale disciplina, la Merceologia,
appunto, ma del valore di scambio e va avanti per tremila pagine con la sua
critica di come il capitalismo governa tale valore.
La
merceologia come materia di insegnamento cominciò a trovare spazio anche in
Italia nelle prime scuole tecniche commerciali e negli Istituti superiori di
Commercio (quello di Trieste, sotto l’Austria), quello di Bari a partire dal
1886, quello di Napoli e poi tutti i successivi). Queste scuole superiori
avevano dei laboratori chimici, che offrivano anche assistenza agli
imprenditori locali, e un museo merceologico in cui venivano raccolti e
classificati i vari prodotti, riconoscibili e confrontabili a disposizione del
pubblico.
Sono
poi passati i decenni; negli anni trenta del Novecento le scuole superiori di
commercio sono diventate Facoltà universitarie di economia e commercio e il
peso dei docenti di merceologia e degli studi merceologici è andato declinando.
Quando sono entrato in un Istituto di Merceologia, a Bologna, nel 1946 ero uno
studente di chimica e chimici erano quasi tutti i docenti; alcuni per genuina
vocazione e passione merceologica, altri come rifugio in mancanza di cattedre
chimiche più prestigiose.
Era
un curioso, affascinante, destino essere un chimico in una facoltà composta di
economisti e giuristi, divertente sotto alcuni aspetti, faticoso quando si
trattava di chiedere di potenziare laboratori e strumenti di misura a colleghi
abituati a studiare sui libri e a casa propria. E poi questo nome “merceologia”
si prestava a ironie talvolta meritate se si pensa che alcuni dei nostri
colleghi tenevano corsi di merceologia descrittivi e noiosi e davvero anche
inutili: uno dei più anziani merceologi si vantava di riuscire a svolgere tre
lezioni sulle “noci di Sorrento”.
La
merceologia era troppo importante per essere lasciata alla scienza delle “noci
di Sorrento”; nel 1948 Walter Ciusa (1906-1989), che insegnava a Bologna e nel
cui laboratorio ho cominciato io stesso gli studi, capì che le conoscenze
merceologiche potevano essere utili a professionisti che avrebbero dovuto
occuparsi di economia e di commercio soltanto se avesse insegnato non solo i
caratteri delle merci, ma soprattutto i processi, i cicli, con cui le materie
della natura vengono trasformate in merci e i vari usi delle merci stesse.
Ci
sarebbero voluti alcuni decenni prima che questa idea fosse ascoltata e
apprezzata. Curiosamente è stata proprio la contestazione ”ecologica” a mettere
in luce tutta l’importanza della conoscenza delle merci e dei loro cicli
produttivi. L’impoverimento delle foreste e delle miniere deriva dal fatto che
il loro sfruttamento è richiesto dalla fabbricazione e dal consumo di sempre
nuove merci in crescente quantità. Nello stesso tempo l’inquinamento delle
acque e dell’aria deriva dai “cicli produttivi” con cui le materie prime e le
risorse naturali sono trasformate in merci e dai caratteri delle merci avviate
alle operazioni di “consumo”.
E
col passare del tempo si è cominciato a parlare di “storia naturale delle
merci”, di rifiuti come ”merci” suscettibili di trasformazione e riciclo in
altri prodotti, di caratteristiche “merceologiche” dei rifiuti.
La
vendetta delle conoscenze merceologiche è arrivata, però, troppo tardi. La
merceologia, insegnata in alcuni istituti tecnici, quelli ”femminili”, come si
chiamavano, e quelli “commerciali”, fu spazzata via dalle nuove riforme che
hanno portato allo smantellamento anche dei laboratori chimici e dei musei e
delle biblioteche merceologiche che alcuni Istituti tecnici avevano gelosamente
conservato e salvato. Purtroppo in molte scuole medie superiori la merceologia
è stata spesso insegnata da laureati che consideravano questa destinazione un
ripiego, che non amavano e forse non capivano la merceologia e le sue
implicazioni anche sociali e politiche.
Del
resto negli stessi studi universitari chimici o naturalistici, i quali, a mio
parere, sono gli unici in grado di fornire le basi conoscitive necessarie ai
docenti di merceologia --- la chimica non è forse la ragioneria della natura ?
--- non è mai stato inserito un insegnamento di merceologia, che pure era una
disciplina cugina, se non proprio sorella, della chimica. Per cui un chimico o
naturalista che fosse andato ad insegnare merceologia non aveva mai seguito un
corso universitario di tale materia. Nello stesso tempo un laureato in economia
e commercio, che pure, bene o male, ha seguito un corso universitario di
merceologia, non poteva insegnare merceologia in un Istituto tecnico.
Va
aggiunto che i docenti medi di merceologia --- che dovevano imparare la
merceologia per proprio conto --- avevano a disposizione modestissimi testi; le
case editrici scolastiche non si sono mai impegnate a far scrivere un buon
testo di merceologia per Istituti tecnici dal momento che il “mercato” di tali
testi appariva marginale e in estinzione; non esiste una rivista “popolare” di
merceologia o una enciclopedia merceologica.
Morta
nelle scuole medie, la Merceologia agonizza anche nelle Università dove i
docenti sono sempre più spesso di estrazione economica e, se hanno seguito un
corso universitario di merceologia, sono in genere privi di educazione e
conoscenze chimiche e naturalistiche; lo stesso nome “merceologia” sta
lentamente scomparendo, sostituito da altri in cui figura il termine
“tecnologia” considerato più politically correct e accettabile.
Per
farla breve: al declino della scienza merceologia, della cultura delle cose
materiali, hanno contribuito tutti: i cultori di studi chimici e naturalistici
che hanno tenuto i loro studenti alla larga dagli insegnamenti merceologici; i cultori
di studi economici che hanno guardato dall’alto al basso i loro colleghi
merceologi, sempre più soli, sempre più spinti a omologare il proprio
linguaggio a quello degli economisti o degli aziendalisti.
Chi
ci rimette è la povera merceologia come scienza, come insegnamento
universitario, come fatto di cultura: merceologia che peraltro si vendica
mostrando ogni giorno di più, prepotentemente, che nel mondo e nell’economia
sono le cose che contano, che gli indicatori economici crescono e calano sull’onda dei flussi di petrolio, silicio, uranio,
acciaio, grano, patate, gomma, plastica. Mostrando ogni giorno di più, come
diceva il titolo di un articolo del settimanale inglese “The Economist”, che
“il potere è alle merci”.
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