Geologia dell’Ambiente, 22, (2),
11-15 (aprile-giugno 2014)
Giorgio Nebbia nebbia@quipo.it
Di questi tempi l’acciaio non ha buona fama in Italia. Il
“caso Taranto”, cioè la scoperta del grave inquinamento provocato dallo
stabilimento Ilva ex Italsider, ha messo in discussione la produzione
dell’acciaio, ma anche più in generale i “danni” dell’industrializzazione. Non
c’è dubbio che la produzione di acciaio non si svolge in un salotto, ma non c’è
dubbio che l’acciaio è e resterà tutto intorno a noi, ci piaccia o no. E’
presente nelle abitazioni, nei ponti e nelle strade, in tutte i macchinari,
perfino nelle merci più “verdi” ed “ecologiche”. La sua produzione ha
accompagnato il “progresso” non solo merceologico, ma anche scientifico,
sociale ed umano.
Già quasi trenta secoli fa i nostri predecessori avevano
scoperto che il ferro esisteva in molte pietre e rocce diffuse sul pianeta,
combinato con altri elementi, ossigeno, zolfo, carbonio, silicio, eccetera; il
ferro non si trova libero sulla superficie del pianeta perché reagisce
facilmente con l’acqua e molti gas atmosferici. I primi metallurgisti avevano
capito che si sarebbe potuto ottenere il ferro, un metallo duro e resistente,
scaldando le rocce con carbone; infatti il carbonio del carbone “porta via”
l’ossigeno dagli ossidi e libera ferro più o meno puro.
Il ferro fuso, ottenuto trattando i minerali con carbone,
risultava di cattiva qualità, ferraccio; più tardi è stato chiarito che il
ferraccio, poi chiamato ghisa, contiene piccole (circa dal 3 al 5 %) quantità
di carbonio, responsabile della fragilità delle leghe ferro-carbonio, e che un
ferro molto migliore, l’acciaio, si ottiene proprio ossidando quella piccola
quantità di carbonio in modo da ottenere delle leghe ferro-carbonio con meno di
1 % di carbonio.
La storia degli ultimi trecento anni dell’acciaio è stata
segnata da una serie di innovazioni, da continui perfezionamenti
dell’altoforno, alla sostituzione del carbone di legna, come riducente del
minerale, con il carbone fossile, poi a sua volta sostituito dal carbone coke,
ai perfezionamenti della trasformazione del ferro dolce e della ghisa in
acciaio per ossidazione a caldo, dapprima nel convertitore Bessemer, poi in
quelli di Martin e Siemens, capaci di trasformare in acciaio sia ghisa sia
rottami, al processo di trattamento della ghisa e del rottame con ossigeno
puro, all’introduzione del forno elettrico per fondere i rottami di ferro,
Oggi 1550 milioni di tonnellate di acciaio sono prodotti nel
mondo principalmente mediante due processi; quello al forno elettrico (circa 30
% della produzione mondiale) e quello a ciclo integrale (circa 70 % della
produzione mondiale).
Il ciclo integrale, quello
seguito a Taranto, inizia con il trasporto delle materie prime, minerali di
ferro e carbone, e il loro deposito in parchi da cui i venti sollevano polveri
che ricadono nelle zone vicine all’acciaieria. Il carbone fossile è trasformato
nel più resistente carbone coke per riscaldamento in assenza d’aria ad alta
temperatura; al fianco del coke (circa due terzi del peso originale del carbone
trattato), si forma una massa di prodotti volatili costituiti da gas, liquidi e
solidi. Questi in parte sono utilizzati come fonti di energia nello stesso
impianto, in parte sono costituiti da residui che contengono molecole varie
come idrocarburi aromatici policiclici, alcuni cancerogeni, fra cui il
tristemente noto benzopirene, uno dei cancerogeni più potenti, che sfuggono
anche ai filtri e finiscono nell’aria e nel suolo circostante. Il coke viene
poi miscelato con il minerale di ferro in un processo di agglomerazione, anche
questo fonte di polvere e di sostanze organiche fra cui membri della famiglia
delle diossine e dei benzofurani, alcuni cancerogeni; anche questi dispersi
nell’aria.
La fase successiva consiste
nella riduzione del minerale negli alti forni, nei quali l’agglomerato è
caricato dall’alto mentre una corrente di aria calda attraversa l’agglomerato
dal basso all’alto del forno; l’ossigeno dell’aria reagisce con il coke, lo
trasforma in ossido di carbonio, un gas riducente che “porta via” l’ossigeno
dagli ossidi di ferro trasformandosi in anidride carbonica. Dal fondo
dell’altoforno allo stato fuso, esce il ferro impuro di carbonio (la ghisa), e
una massa fusa di silicati, le “loppe”. Dall’alto del forno esce una miscela di
gas e polveri che in parte sfuggono ai filtri e rappresentano la quarta
importante fonte di inquinamento dell’intero processo.
La ghisa viene trattata,
insieme a rottami, nei convertitori in cui una corrente di ossigeno “porta via”
dalla ghisa il carbonio residuo e la trasforma in acciaio fuso. Anche qui, come
negli altiforni, si formano polveri e residui solidi, le loppe, che in parte
trovano qualche impiego nei cementifici e in parte finiscono nelle tanto
contestate discariche, altre fonti di inquinamento del suolo e delle acque: una
quinta fonte di nocività. Tutto questo è ben noto ai cittadini di Taranto.
Il ciclo siderurgico integrale, quindi, è efficiente, ma
altamente nocivo per i lavoratori e per l’ambiente circostante ed è tanto più
“sporco” quanto più scadenti sono le tecniche di manutenzione e depurazione. Al
punto che l’esercizio dello stabilimento siderurgico di Taranto, il più grande
d’Italia, con una capacità produttiva di una diecina di milioni di tonnellate
all’anno e la movimentazione di una quantità ancora superiore di materie prime
e di scorie, vecchio ormai di 50 anni, ha suscitato una protesta popolare che
in parte si traduce in una contestazione contro “l’acciaio”. Tale contestazione
crea una dolorosa frattura fra lavoratori, che temono per il proprio posto di
lavoro, loro stessi inquinati dentro la fabbrica, e la popolazione, comprese le
famiglie dei lavoratori, inquinate per le sostanze nocive che escono dalla
fabbrica.
Ci si è allora chiesti se non è possibile ottenere acciaio,
di cui c’è crescente bisogno nel mondo, con una ulteriore svolta tecnologica.
Il vice commissario dell’Ilva Edo Ronchi ha così suggerito di ricorrere ad una
tecnologia già sperimentata altrove, consistente nell’accorciare il ciclo usando
il metano come agente riducente del minerale. Questo gas, abbondante in natura,
è costituito da un atomo di carbonio e quattro atomi di idrogeno, tutti adatti
per “portare via” l’ossigeno dal minerale;, si ottiene così un ferro preridotto
adatto per essere raffinato nei convertitori ad ossigeno, insieme a rottami.
Il processo comporta
problemi di costi, monetari ed energetici, tecnologici (radicale trasformazione
dell’acciaieria e modifiche delle strutture portuali), tecnico-scientifici
perché l’efficacia dipende dalla qualità dei minerali di ferro e dalla qualità
dell’acciaio che verrebbe prodotto e anche ambientali perché nessun processo è
esente da polveri e fumi e scorie.
L’economia e la termodinamica sembrano favorevoli e nel
mondo già circa 60 milioni di tonnellate di acciaio sono prodotti ogni anno con
l’impiego di metano; il processo è oggetto di continui perfezionamenti e di
analisi per valutare l’inquinamento che comporta e che esiste, anche se molto
minore di quello esistente con il ciclo basato sul carbone. Come tutte le altre
transizioni tecnologiche che si sono verificate nel passato, la trasformazione
delle attuali acciaierie con l’introduzione del ciclo basato sul metano
incontra decise opposizioni. Innanzitutto da coloro che dovrebbero affrontare
nuovi investimenti finanziari. Contro l’acciaio al metano sono prevedili
opposizioni da parte delle potenti organizzazioni dell’estrazione, del
commercio e del trasporto fel carbone. Nel mondo circa 1000 milioni di
tonnellate di carbone ogni anno sono assorbite dalla siderurgia mondiale e gli
ingenti profitti di queste attività verrebbero ridotti a favore dei produttori,
esportatori e trasportatori di metano.
I vantaggi sembrano peraltro riconoscibili; innanzitutto sul
piano umano, sociale e ambientale, grazie alla diminuzione dell’inquinamento;
verrebbe così attenuata la giusta protesta popolare contro l’attuale “acciaio”,
e potrebbero venirne una migliore confidenza con la tecnologia da cui dipende
l’occupazione; sul piano dell’occupazione, inoltre, si avrebbero positive
ricadute nelle fasi di innovazione e ricerca e di costruzione e installazione
dei nuovi impianti.
Per ora il discorso è soltanto iniziato, ma tutto induce a
credere che la sopravvivenza della siderurgia italiana possa essere meglio
assicurata da una trasformazione tecnologica basata sul metano. E’ perciò
auspicabile che si passi dalla fase di idea e proposta ad una seria analisi
interdisciplinare delle attuali conoscenze sulla preriduzione, anche nei loro
aspetti geopolitica: da dove acquistare minerali di ferro e di quale qualità,
dove approvvigionarsi del metano, tenendo conto che finora la preriduzione è
stata vista come un processo da utilizzare nelle vicinanze delle miniere, con
esportazione di ferro preridotto, per cui al paese importatore resterebbe
soltanto la fase finale della produzione di acciaio. Si tratta di scelte
influenzate anche dalla futura disponibilità di rottami, prevedibilmente in
aumento..
La transizione potrebbe
incentivare quella innovazione tecnologica di cui tanto si parla, anche con il
coinvolgimento delle Università, e comunque non potrebbe avvenire per bacchetta
magica. Non so come finirà; si tratta di una occasione per coinvolgere, come
mai è stato fatto in passato, la popolazione nei dettagli del processo, delle
quantità e dei caratteri delle materie che verrebbero ad attraversare Taranto;
una occasione per effettuare una “valutazione dell’impatto ambientale”
preventiva, con la partecipazione della popolazione, ben diversa dalle
affrettate valutazioni o autorizzazioni finora fatte a disastri avvenuti.
Comunque, a mio modesto
parere, anche solo l’aver formulato l’idea di un cambiamento, ha stimolato un
dibattito e destato un briciolo di speranza per un futuro in cui Taranto
conservi la sua tradizione industriale e operaia, l’occupazione e in cui si
muoia di meno di mali ambientali.
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