mercoledì 29 settembre 2010

Il nome delle merci e dei rifiuti

Benito Leoci bleoci@yahoo.it

Premessa

L’esigenza di distinguere oltre che con un nome anche con un codice o una matricola, prodotti, merci e persino persone, è molto antica, in quanto collegata alla necessità di individuare con precisione, rapidamente e senza possibilità di errori, gli stessi oggetti o persone. Esigenza accresciuta in questi ultimi tempi con la proliferazione di composti e merci di ogni genere. L’attribuzione di un codice ad una molecola, ad un’arma portatile o ad un volume risolve problemi diversi. Nel primo caso si vuole risalire alla formula e alle proprietà chimico-fisiche del composto, nel secondo si vuole individuare il proprietario dell’arma, nel terzo caso si vuole facilitare la ricerca del volume1 in una biblioteca o si intende soddisfare altre esigenze (per compilare cataloghi, per motivi contabili, ecc.). L’ultimo settore investito da un sistema di codificazione è quello dei rifiuti, come vedremo più avanti.

Mentre, però, in alcuni settori è stato relativamente semplice contraddistinguere con un nome o un numero l’oggetto da identificare (si pensi ai mezzi di trasporto, alle abitazioni, ai libri, ecc.), in altri settori l’impresa si è rilevata più difficile del previsto. Si pensi ai composti chimici e ai prodotti derivati e, in particolare, ai rifiuti. Esaminiamo più da vicino alcuni di questi settori e i relativi sistemi di codificazione.

Composti e prodotti chimici

Il bisogno di individuare con precisione le caratteristiche chimico-fisiche degli elementi e dei loro composti con l’uso di simboli e nomi, nasce nel corso del 17° secolo (2), quando l’alchimia si trasforma in chimica. Come si possono denominare i tentativi di J.V. Dobereiner, di J.A.R. Newlands, di J.L. Meyer e, quelli più fortunati, di Mendeleev (3), di ordinare e classificare gli elementi chimici, se non come una necessità di dare un nome e un numero a ciascun elemento in modo da poter dedurre, senza errori, tutte le proprietà connesse?
Circa i composti chimici, il lavoro per individuare un metodo utile per attribuire loro un nome univoco e chiaro, è stato più lungo ed inizia, praticamente, il 1919 con la nascita dello IUPAC (4). In precedenza però, nel 1911, si era riunita a Parigi la “International Association of Chemical Societies” (IACS), con lo scopo di stabilire, fra l’altro, la nomenclatura dei composti chimici organici e inorganici, gli standard dei pesi atomici e delle costanti fisiche, e altre caratteristiche. Il primo tentativo, a livello internazionale, di approntare un sistema per denominare i composti chimici organici viene però attribuito a Kekulè, che nel 1860 organizza il primo di una serie di incontri, da cui scaturisce poi la Conferenza di Ginevra (Geneva Nomenclature) del 1892.
Allo stesso tempo, col crescere del numero dei composti chimici, che vengono sintetizzati o individuati (se esistenti in natura), appare sempre più evidente la necessità di ricorrere ad un sistema opportuno e semplice per denominarli, classificarli e descriverli. Il problema si pone evidentemente anche agli autori del Chemisches Zentralblatt, del Berichte, del Chemical Abstracts e di altri minori, i quali si erano proposti anche il compito di raggruppare, in apposti volumi, da pubblicare periodicamente, i riassunti degli articoli riguardanti in qualche modo la chimica, che apparivano sulle riviste scientifiche specie europee e statunitensi.
Il Chemisches Zentralblatt nasce il 1830 a Lipsia, su iniziativa di un certo Leopold Voss, editore, e Gustav T. Fechner, filosofo-fisico, sotto il nome di “Pharmaceutisches Centralblatt”. L’idea è quella di pubblicare i riassunti degli articoli, riguardanti prodotti farmaceutici, che apparivano sulle riviste tedesche e straniere. Il 1864, gli editori introducono un indice sistematico che può essere considerato come il primo sistema di classificazione dei composti. Il 1884, con l’introduzione delle formule di struttura dei composti considerati, si ha un’altra svolta nella storia di queste pubblicazioni. Il Chemisches Zentralblatt conosce il massimo successo nel periodo1897-1938, per poi subire un lento declino a partire dagli anni del II conflitto mondiale, seguito dalla divisione della Germania nelle due repubbliche. Il 31 dicembre del 1969 cessano le pubblicazioni con l’uscita dalla produzione della “Akademie Verlag” della Repubblica Democratica che negli anni precedenti, con alterne vicende, aveva collaborato attivamente con la “Verlag Chemie” della Repubblica Federale (poi riuniti dal 1949 nella Gesellschaft Deutscher Chemiker). La Verlag Chemie confluisce nella American Chemical Society (ACS) per collaborare alla pubblicazione dei Chemical Abstracts. Nei 140 anni di attività la Chemisches Zentralblatt5 pubblica 140 volumi formati da 700 mila pagine, contenenti 3 milioni di riassunti e 200 mila pagine di indici. Ogni composto viene riportato con il suo nome (o i vari nomi), con la sua formula, con il riassunto delle principali proprietà e indicizzato con un codice di individuazione.
Per quanto riguarda il Berichte, Il primo volume appare nel 1868 col titolo “Berichte der deutschen chemischen Geselschaft”. Nel 1919, col n. 52, i volumi vengono divisi in due serie (A: Vereins-Nachrichten e B: Abhandlungen), per assumere, dal 1947 (dopo un anno di interruzione a causa dei problemi post bellici), fino al 1996, il nome di “Chemische Berichte”. Quest’ultimo, il 1997 viene assorbito dalla “Dutch Journal Recueil des Travaux Chimiques des Pays-Bas”, per formare la “Chemische Berichte/Recueil” e la “Liebigs Annalen/Recueil”. L’anno successivo entrambe vengono fuse con altre riviste europee per formare rispettivamente l’ “European Journal of Inorganic Chemistry” e l’ “European Journal of Organic Chemistry”.
Nello stesso 19° secolo nascono altre riviste con lo scopo identico: in Francia il “Bulletin de la Sociètè Chimique de France” (1863), in GB il “Journal of the Chemical Society” (1671). Negli USA, ad opera di Arthur A. Noyes6, parte la “Review of American Chemical Research” (1895), che dopo due anni diventa un supplemento del “Journal of the American Chemical Society” (JACS). Il 1902 diventa editore del JACS William A. Noyes, un cugino di Arthur, che era convinto dell’opportunità di pubblicare una rivista contenente i riassunti degli articoli riguardanti argomenti di chimica, pubblicati in altre riviste. Nel giro di 4 anni convince della bontà della sua idea, gli editori dell’ACS ed inizia la pubblicazione dei “Chemical Abstracts” (CA). L’inarrestabile sviluppo del CA negli anni successivi fino al completo dominio del settore in tutto il mondo, è da attribuire al lavoro di un certo E. J. Crane che rimane editore per 41 anni, fino al 1956 quando diventa il primo direttore del Chemical Abstracts Service (CAS) ovvero con la trasformazione della organizzazione in una divisione operativa dell’ACS.
Sembra utile ricordare alcune tappe importanti del CA. Nel 1965 viene introdotto il CAS Chemical Registry System. Il conseguente uso del CAS Registry Number, per identificare le sostanze, scongiura l’uso di termini spesso ambigui. I chimici possono contare su una informazione precisa, utile sia per la ricerca che per evitare pericoli per la salute e l’ambiente. Nel 1968 inizia l’uso di nastri magnetici per registrare i dati e le informazioni disponibili. Il 1980 si adotta il “CAS on line”, per mettere a disposizione dei ricercatori il CAS Registry database. Il 1983 l’ACS e la FIZ Karlsruhe sottoscrivono un accordo per approntare STN, un network on line internazionale che diventa operativo l’anno successivo. Il 1995 viene introdotto lo “SciFinder” uno strumento che rende possibile l’accesso diretto ai CAS database.
Lo sviluppo e i successi dell’ACS sono inarrestabili. Per dare un’idea delle sue dimensioni e del lavoro di informazione svolto nel corso del 20° secolo basta ricordare che esso si avvale di circa 160 mila collaboratori, distribuiti in tutto il mondo, mentre presso la sede sono occupati quasi 2.000 persone. Fra i suoi editori e autori si annoverano ben 200 premi Nobel. Pubblica 39 riviste scientifiche. Fino al 2009 ha raccolto e riportato 27 milioni di estratti di articoli scientifici. Il 7 settembre 2009 il CAS ha annunciato di aver registrato nel CAS Registry, con il numero 1181081-51-51, la 50 milionesima molecola, una nuova “arilmetilidene eterociclica” avente proprietà analgesiche (7).

Merci

Nel corso del 20° secolo un gran numero di nuove molecole, fra quelle scoperte e sintetizzate, viene utilizzato per produrre merci di ogni genere (prodotti farmaceutici, vernici, pesticidi, tessuti, oli lubrificanti, ecc.), che vengono immessi al consumo, spesso senza una adeguata precedente sperimentazione circa la loro innocuità per la salute umana e l’ambiente. Alcuni di questi provocano disastri8, altri si rivelano pericolosi a lungo termine per l’ambiente e per la salute9. Sorge la necessità di dover individuare rapidamente e con precisione le caratteristiche di queste nuove merci, onde poter predisporre con cura le modalità del loro trasporto, della loro gestione, gli interventi da adottare in caso di incidenti. Appare evidente che l’unica via percorribile, ancora una volta, è quella di contrassegnare ogni singolo prodotto con un codice da utilizzare in caso di necessità per collegare lo stesso ad una scheda contenente tutte le informazioni necessarie (modalità di stivaggio, di trasporto, tipo di interventi in caso di incidenti, ecc.). Tale esigenza è fortemente sentita per prima nel settore dei trasporti marittimi, ove a partire dagli anni 50’ si era verificata una serie di disastri provocati da alcune merci durante la navigazione10. Un apposito organismo dell’ONU si pone al lavoro e in breve appronta un volume a schede mobili, noto come Blu Book, riportanti le modalità di movimentazione e stivaggio delle merci da trasportare. Modalità che tutti i comandanti di navi mercantili devono osservare, pena la perdita della copertura assicurativa prestata dal P & I Club di Londra o da altre società di assicurazione. Seguono volumi analoghi per il trasporto via ferrovie, via terra e via aerea (11).
Per quanto attiene poi la gestione in generale dei prodotti chimici, con lo scopo di ridurre i pericoli per l’ambiente e la salute umana, in questi ultimi anni vengono emanate numerose disposizioni sia a livello ONU che UE, riguardanti le modalità di registrazione, classificazione ed etichettatura degli stessi. Poiché dette norme non sempre sono coerenti fra di loro, si sente poi la necessità di intervenire ancora con lo scopo di armonizzare e aggiornare le stesse (12). In sede ONU, sotto la spinta delle decisioni approvate in occasione della conferenza delle NU, su “Ambiente e Sviluppo”, tenuta a Rio de Janeiro il 1992, viene elaborato il sistema GHS (13) per la gestione di tali sostanze. In Europa nasce il regolamento 1907/2006 REACH, poi completato con il regolamento n. 1272/2008, “CLP – Classification, Labelling, Packaging”, in vigore dal 20 gennaio 2009 (G.U.U.E. L 353/2008). I regolamenti REACH e CLP, affiancati, costituiscono ora il quadro normativo di riferimento per tutti gli aspetti concernenti le sostanze chimiche, sia tal quali, che contenute all’interno di miscele o merci.
Queste ultime però prima o poi diventano rifiuti. E rifiuti si producono anche durante i processi produttivi. Nasce di conseguenza la necessità di intervenire anche sui rifiuti per attribuire loro precise denominazioni e codici inequivocabili onde seguire le varie fasi della loro gestione, sempre con lo scopo di scongiurare danni all’ambiente e alla salute delle persone.

Rifiuti

A partire dalla fine degli anni ’70 in Europa, ma anche negli Stati del Nord America, esplode una frenetica attività legislativa per fronteggiare i crescenti problemi provocati dall’inquinamento ambientale. L’aumento delle popolazioni, l’industrializzazione selvaggia sulla spinta della crescita dei consumi, influiscono sempre più sull’ambiente, danneggiando, spesso in maniera irreversibile, la qualità dell’aria, delle acque e dei terreni. Sulle riviste scientifiche, ma anche sulla stampa e sugli altri mezzi di comunicazione, appaiono termini e concetti nuovi, mai uditi in precedenza, quali diossina, PCB, piogge acide, eutrofizzazione, metilmercurio, esaclorofene, talidomide, ecc. E dagli USA arrivano libri che descrivono fenomeni ancora più allarmanti: le primavere silenziose, il cibo che uccide, l’anello di Re Salomone, ecc. Per combattere o per almeno contrastare il progressivo peggioramento dell’ambiente si ricorre allo strumento più semplice ovvero a quello giuridico con l’adozione di norme subito denominate di “comando e controllo”. Sarebbe troppo lungo ricordare il fiume di norme emanate in quegli anni, nell’ultimo ventennio del ventesimo secolo, sia in Europa che nel Nord America e nei Paesi più industrializzati dell’estremo Oriente. Sta di fatto che all’inizio del terzo millennio si comincia a notare che nonostante le norme e le sanzioni connesse, il peggioramento dell’ambiente continua inesorabile insieme all’inarrestabile crescita delle popolazioni e all’eccessiva proliferazione di norme e regolamenti. Lo strumento giuridico non solo si dimostra insufficiente ma, se utilizzato male, addirittura controproducente. Nel nostro Paese, sulla scia dell’allarme lanciato dagli studiosi (qualcuno arriva ad avvertire che l’ambiente muore anche per troppa attenzione), il 2002 il Ministro dell’Ambiente allora in carica è costretto ad ammettere (14) che “troppe leggi finiscono inevitabilmente per diventare comunque inidonee al conseguimento degli obiettivi: neanche la Pubblica Amministrazione sa più come applicarle e farle rispettare”. Ammissione provocata sia “dall’iper produzione legislativa ed eccessi burocratici”, sia dalla constatazione che “le imprese italiane (ma anche quelle degli altri Paesi europei) devono compilare ogni anno 3 milioni di moduli impiegando 50 milioni di ore di lavoro e spendendo oltre 700 milioni di euro”. Continua detto Ministro ricordando il proliferare di “registri, formulari, moduli, albi speciali e iscrizioni farraginose, contraddittorie e sbagliate che penalizzano gli imprenditori e possono costituire anche uno stimolo alla violazione delle regole”. Non si può non convenire con queste osservazioni, solo che dopo otto anni nulla è cambiato, il proliferare delle leggi continua e quelle errate precedenti non vengono migliorate. Gira in questi giorni in Parlamento, per l’approvazione, un disegno di legge che interviene pesantemente sulla parte IV del D. Lgs. n. 152/0615. Basta dare uno sguardo alle modifiche elencate per capire che i tanti problemi sollevati dalle norme in vigore che si vogliono ritoccare non vengono nemmeno sfiorati. Fra questi, a rimanere immutato è il Catalogo Europeo dei Rifiuti, meglio noto come codici CER. Codici che sulla carta dovevano semplificare la vita degli operatori (forze di polizia, produttori di rifiuti, pubblici amministratori, ecc.), ma che in realtà hanno accresciuto la confusione e il lavoro di chi è costretto ad utilizzarli. Vediamo perché, non prima di aver sottolineato che l’ambiente è l’unico settore ove l’introduzione di codici abbia peggiorato la situazione precedente, accrescendo incertezze e dubbi.

I CER

L’elenco dei rifiuti sottoposti a codifica nasce nel lontano 1994, con la decisione della Commissione della Comunità Europea n. 94/3/CEE16, seguita subito dopo dalla decisione n. 94/904/CEE relativa all’elenco dei rifiuti pericolosi (17), con lo scopo di attribuire ad ogni fattispecie un codice, da riportare su tutti i documenti riguardanti le varie fasi della loro gestione: stoccaggio, trasporto, recupero o smaltimento. Entrambe queste decisioni entrano nella legislazione italiana come allegato A punto 2 (relativo al Catalogo Europeo dei Rifiuti) e allegato D (relativo ai codici dei rifiuti pericolosi) al decreto legislativo 5 febbraio 1997, n. 22. Quest’ultimo, che attua le direttive 91/156/CEE sui rifiuti, 91/689/CEE sui rifiuti pericolosi e 94/62/CEE sugli imballaggi e sui rifiuti da imballaggi, sostituendo il DPR n. 915/82, non ha lasciato un buon ricordo (18), anche perché rimandava per la risoluzione di molti problemi a regolamenti futuri che non sono mai stati emessi. Problemi mai risolti nemmeno dal decreto successivo sostitutivo, prima citato (D. Lgs. n.152/06).
Si legge nell’allegato A che il “Catalogo vuol essere una nomenclatura di riferimento con una terminologia comune per tutta la Comunità allo scopo di migliorare tutte le attività connesse alla gestione dei rifiuti. A questo riguardo il CER dovrebbe diventare il riferimento di base del programma comunitario di statistiche sui rifiuti…”. Gli scopi del CER devono dunque essere quelli del miglioramento di tutte le attività di gestione dei rifiuti oltre a consentire l’elaborazione di statistiche a livello comunitario.
Gli interessati, comunque, non fanno in tempo ad impossessarsi dei meccanismi per l’uso di detti codici, che l’elenco viene profondamente modificato per effetto di un’altra decisione della Commissione, la 2000/532/CE19 che vara un nuovo catalogo noto come “CER 2002”, in sostituzione del precedente. Col CER 2002 si aboliscono 280 codici presenti nel precedente e si introducono 470 nuovi codici, con grande costernazione degli interessati, specie per i produttori o detentori di rifiuti che si vengono a trovare nella necessità di modificare i codici precedenti sia per compilare registri di carico e scarico, sia i MUD, sia i formulari di identificazione e, soprattutto, accertare se fra i rifiuti gestiti vi sono quelli da riclassificare come pericolosi. Le aziende che hanno poi come attività la gestione dei rifiuti devono anche modificare l’iscrizione all’Albo dei gestori ambientali20. L’individuazione del codice da attribuire a un rifiuto in molti casi non è semplice, ed è ancora più difficoltoso, in alcuni casi, capire se si tratta di rifiuto pericoloso o meno. Tralasciamo quest’ultimo aspetto perché esuleremmo dagli scopi della presente nota, per dare un’occhiata all’iter da seguire per individuare i codici. Ricordiamo solo che quando un rifiuto è stato già identificato come pericoloso il suo CER è contrassegnato con un asterisco.

L’attribuzione di un codice.

L’attribuzione di un codice ad un rifiuto è un compito che spetta al produttore o in mancanza al detentore, in quanto l’impostazione del catalogo è fondata principalmente sulla conoscenza del ciclo produttivo.
I codici che contrassegnano i rifiuti elencati nel catalogo sono formati da tre coppie di numeri. La prima coppia che va da 01 a 20 rappresenta il capitolo e indica la fonte da cui si genera il rifiuto o il ciclo produttivo come potremmo dire meglio. Ma non sempre. Seguono questa logica i capitoli che vanno da 01 a 12 e da 17 a 20. Chissà perché. Il produttore di rifiuti deve iniziare la ricerca in questi capitoli. Se la ricerca è infruttuosa deve esaminare i capitoli 13, 14 e 15 che sono invece collegati ad alcuni tipi di rifiuto (oli esausti, solventi, refrigeranti, imballaggi, ecc.). Vi è infine un capitolo tampone, salva elenco, il 16 a cui deve ricorre quando non riesce a codificare il rifiuto diversamente, con le ricerche precedenti (qui si elencano veicoli fuori uso, scarti di apparecchiature elettriche ed elettroniche, prodotti fuori specifiche, esplosivi, catalizzatori, ecc., alla rinfusa e senza nessun ordine). Queste sono le istruzioni che si trovano nell’introduzione dell’allegato D prima citato. In realtà anche il 16 è collegato ad alcuni tipi di rifiuti e poi non si comprende la strana distribuzione dei codici che non segue alcun criterio, per cui di volta in volta occorre esaminarli tutti per individuare quello che interessa.
Le altre due coppie di numeri indicano, all’interno di ciascun capitolo, il particolare tipo di rifiuto. Ma non bisogna farsi troppe illusioni, perché le indicazioni sono spesso generiche. Per esempio all’interno del capitolo 02 (Rifiuti prodotti da agricoltura, orticoltura, acquicoltura, selvicoltura, caccia e pesca, trattamento e preparazione di alimenti) si trova il codice 020203 che sono “scarti inutilizzabili per il consumo e la trasformazione”. Che vuol dire? Se fossero utilizzabili non sarebbero più rifiuti.
Se, comunque, la ricerca delle altre due coppie di numeri è infruttuosa si può ricorrere al codice che termina con 99. Per ritornare all’esempio precedente basta usare il codice 020299 per codificare il proprio rifiuto scrivendo a fianco il nome, che evidentemente il legislatore non conosce perché altrimenti avrebbe provveduto con un codice ad hoc. I codici col finale 99 contrassegnati con la dicitura “rifiuti non specificati altrimenti” sono numerosissimi circa 70, a testimoniare la certezza o l’ignoranza da parte degli estensori di aver trascurato molti rifiuti. E’ superfluo far notare che ricorrendo al codice 99, scrivendo a fianco il nome del rifiuto, si toglie il fine e l’utilità del codice stesso, che è proprio quello di evitare descrizioni.
Nella ricerca di un codice può accadere anche il contrario e cioè l’interessato individua il proprio rifiuto in più capitoli, venendosi a trovare nella necessità di scegliere un codice invece di un altro. Un impresa autorizzata alla raccolta rifiuti, per esempio, troverà la voce “rifiuti da imballaggi” sia nel capitolo 1501.. che nel capitolo 2001.. Quale utilizzare? Il capitolo 20, poi, fa sorgere altri dubbi e incertezze. Nelle intenzioni del legislatore dovrebbe servire per codificare espressamente ed esclusivamente rifiuti urbani (quelli prodotti dalle abitazioni e dallo spazzamento delle strade), compresi quelli derivanti dalla raccolta differenziata (di qui la confusione sugli imballaggi prima citata). Consegue che i codici da 01 a 19 si riferiscono esclusivamente ai rifiuti speciali ovvero quelli prodotti dalle attività produttive di qualsiasi tipo. C’è però una complicazione: fra i rifiuti urbani il legislatore, con il D. Lgs. n. 152/06 (e in tutte le leggi precedenti), comprende anche “i rifiuti di qualunque natura e provenienza, giacenti sulle strade e aree pubbliche…” (art. 184, punto d, 2° comma). Ne deriva che se un rifiuto speciale viene abbandonato su una via, il suo codice cambia per assumere quello adatto del capitolo 20, se lo si trova. Ma si può sempre ricorrere al 200199 o 200399. Dunque, il rifiuto è sempre quello ma i codici cambiano secondo le circostanze. E’ come se la matricola di un motore o di una rivoltella o il codice ISBN di un libro dovessero cambiare secondo il luogo ove si trovano.
A complicare le cose intervengono spesso alcune circolari del Ministero dell’Ambiente. Per le siringhe abbandonate nei luoghi pubblici, per esempio, che per definizione dovrebbero essere rifiuti urbani, le circolari indicano l’utilizzo del codice 180103*, col quale tra l’altro si fa fatica a individuare le siringhe (la dizione corrispondente è infatti: “rifiuti pericolosi che devono essere raccolti e smaltiti applicando precauzioni particolari”).
Scorrendo il catalogo si trovano anche rifiuti che non dovrebbero essere considerati in quanto non disciplinati dal D. Lgs. 152/06. Fra questi troviamo gli esplosivi che nel catalogo vengono indicati con i codici 160401*, 160402* e 160403*. Ma si trovano anche rifiuti che non esistono più. Con il CER 061304* si indicano i rifiuti derivanti dalla lavorazione dell’amianto. C’è qualcuno in Europa che continua a lavorare l’amianto?

Conclusioni

Un semplice esame dei documenti citati, pone in evidenza una lunga serie di incongruenze, omissioni, errori dovuti probabilmente all’assenza, nei comitati o commissioni che procedono alla loro elaborazione, di merceologi o studiosi di discipline affini (Tecnologie dei cicli produttivi, ecc.).
Il sistema utilizzato per codificare i rifiuti, organizzato secondo la fonte di provenienza, non è condivisibile per il semplice motivo che porta a doppioni o ripetizioni con conseguenti incertezze. Il ricorso ai codici 13, 14 15 e 16 è la prova più evidente del fallimento del criterio seguito. Il problema della codificazione non è da trascurare. Gli agenti del NOE quando fermano un autotreno carico di rifiuti si avvalgono principalmente delle indicazioni dei CER per controllare i carichi. D’altra parte l’adozione del SISTRI ovvero della tracciabilità dei rifiuti non potrà essere efficace senza l’uso di codici chiari ed inequivocabili. Ma non c’è da essere molto ottimisti. Il disegno di legge citato in precedenza, in corso di approvazione, che interviene sulla parte quarta del D. Lgs. 152/06, riporta come allegato gli stessi CER precedenti. Nessuno si è premurato di controllarli.

Riferimenti

(1). L’ISBN (International Standard Book Number), come è noto, è un codice formato, dal 1° Gennaio 2007, da 13 cifre (prima era di 10 cifre) suddivise in 5 parti da trattini di divisione, che identifica a livello internazionale un titolo di un determinato editore. Da un ISBN si può generare un codice a barre da utilizzare per la lettura ottica. Per i periodici si usa l’ISSN (International Standard Serial Number) per identificare la testata. Per le opere musicali nella loro interezza si usa l’ISWC (alle parti si attribuiscono altri codici. Per esempio agli spartiti l’ISMN, a una registrazione video un ISAN, ecc.). Per le registrazioni sonori si usa l’ISRC. Per identificare i prodotti digitali come i file di testo, di immagini, musicali ed audiovisivi si utilizza il DOI (Digital Object Identifier), mentre le risorse su Internet si identificano con l’URN (Uniform Resource Names).
(2). Convenzionalmente il passaggio viene fatto coincidere con la pubblicazione, nel 1661, del famoso libro di Boyle (1627 – 1691), “The Sceptical Chymist”, considerato come l’atto di morte dell’alchimia. A chi vuole saperne di più e in fretta dell’alchimia, si consiglia il bellissimo libro di E.J. Holmyard, “Storia dell’alchimia”, Biblioteca Sansoni, Firenze, 1959.
(3). D.I. Mendeleev (1834 – 1907) pubblica la sua prima tavola periodica nel 1869, affermando che “le proprietà degli elementi variano con cadenza periodica all’aumentare della massa atomica”. Su questo scienziato sono state scritte migliaia di pagine. A chi capita dalle parti di S. Pietroburgo consigliamo una visita alla sua casa-museo presso la locale Università, famosa ai più perché ospita la biblioteca più lunga del mondo. Nella metropolitana di Mosca vi è una stazione intitolata a Mendeleev, facilmente individuabile oltre che dal nome anche dai lampadari a forma di molecole.
(4). L’International Union of Pure and Applied Chemistry nasce nel 1919 ad opera di un gruppo di chimici provenienti da alcune industrie e università, che avevano notato la necessità di adottare, a livello internazionale, metodi standard per pesare, misurare, denominare i composti chimici già noti e quelli che si andavano sintetizzando. A questa associazione scientifica, internazionale, non governativa, aderiscono 45 organizzazioni di nazioni diverse oltre ad altre 20 collegate in varie maniere con le prime. Collaborano oltre 1000 chimici di tutto il mondo, suddivisi in otto divisioni, a loro volta formate da vari comitati. Nel tempo i settori di interesse dello IUPAC si ampliano fino a comprendere lo studio degli impatti socio-politici della chimica (disponibilità di materie prime, la chimica degli alimenti e le problematiche ambientali). Attualmente lo IUPAC cura anche la pubblicazione di una serie di libri nota come “Nomenclature books series” o “Color Books” (Compendium of Chemical Terminology – Gold Book, Nomenclature of Inorganic Chemistry – Red Book, ecc.).
(5). Per maggiori notizie si rimanda a: R. Willstätter, “Zue Hundertjahrfeier des Chemischen Zentralblattes””, Angew. Chem. 1929, 42, pag. 1049; C. Weiske, “Das Chemische Zentralblatt – ein Nachruf”, Chemische Berichte 1973, 106.
(6). A. A. Noyes era un professore di Chimica-fisica al MIT e la Review era all’inizio un supplemento del Technology Quarterly del MIT.
(7). Per maggiori notizie rimandiamo a B. Leoci e M. Ruberti, “La nomenclatura e la codificazione degli elementi, dei composti, delle merci e dei rifiuti: luci ed ombre”, in Atti del Convegno “I sistemi di gestione ambientale per lo sviluppo eco-sostenibile del territorio”, Università di Sassari, Alghero-Isola dell’Asinara, 24 – 25 Giugno 2010.
(8). Sono ben noti i disastri provocati dalla talidomide, dal borotalco all’esaclorofene, dal metilmercurio, dalla diossina e da tanti altri prodotti.
(9). Fra questi basta ricordare il DDT, i PCB, l’amianto, che pure si erano rivelati molto utili per diversi usi.
(10). Si veda M. Ruberti, B. Leoci, “Una merce pericolosa da trasportare: l’ipoclorito di calcio”, in Atti del XXIV Congresso Nazionale delle Scienze Merceologiche, Torino/Alba 23 – 25 giugno 2009.
(11). M. Ruberti, G. Mappa, “I principali riferimenti normativi internazionali per il trasporto delle merci pericolose”, in Atti del XXIV Congresso Nazionale delle Scienze Merceologiche, Torino/Alba 23 – 25 giugno 2009.
(12). Si veda S. Massari, M. Ruberti, “L’armonizzazione internazionale della registrazione, classificazione ed etichettatura dei prodotti chimici. Conseguenze per l’Italia”, in Atti del XXIV Congresso Nazionale delle Scienze Merceologiche, Torino/Alba 23 – 25 giugno 2009.
(13). ONU, “Globally Harmonized System of Classification and labelling of Chemicals”, New York and Geneva, 2003, ST/SG/AC.10/30. Aggiornato al 2007.
14. Si legga la presentazione a “La nuova disciplina e classificazione dei rifiuti. CER 2002, dell’Union Camere e CONAI, Edizioni Hyper, Venezia, 2002.
(15). Decreto legislativo 2 aprile 2006, n. 152, “Norme in materia ambientale” (G.U. n.88/06).
(16). Adottata a seguito dell’art. 1, lett. A) della direttiva n. 75/442/CEE, modificata dalla direttiva 91/156/CEE.
(17). Adottata in base all’art. 1, paragrafo 4 della direttiva 91/689/CEE.
(18). Subito battezzato dall’arguzia partenopea come il decreto dei pazzi, visto che il 22, nella Cabala Napoletana, è appunto il numero dei pazzi.
(19). A sua volta modificata dalle decisioni 2001/118/CE, 2001/119/CE e 2001/573/CE.
(20). Quest’Albo ha cambiato nome diverse volte da quando è stato istituito (con legge 29 ottobre 1987, n. 441). Attualmente si chiama Albo dei gestori ambientali. Le ditte per poter esercitare come attività la raccolta e il trasporto dei rifiuti oltre ad altri servizi devono essere iscritte in questo albo.

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