venerdì 1 ottobre 2010

Energia dalle alghe

Roberto Rana, Università di Foggia

Negli ultimi anni il rapido sviluppo economico di alcuni paesi emergenti come Cina, India, ecc. ha determinato una crescita dei consumi dei combustibili fossili e, conseguentemente, ha accelerato il loro esaurimento ed incrementato la concentrazione atmosferica dell’anidride carbonica. Così molti governi, in tutto il mondo, per far fronte a questi gravi rischi hanno avviato studi approfonditi sulle fonti energetiche rinnovabili e sperimentato tecnologie in grado di “sequestrare” il gas climalterante. Tra le soluzioni proposte quella che prevede l’impiego della biomassa sembra essere la migliore in quanto la sostanza organica, attraverso la reazione di fotosintesi clorofilliana, intrappola il diossido di carbonio e converte la radiazione luminosa in energia disponibile per le attività umane. In questo modo, infatti, i vegetali se bruciati producono direttamente calore impiegato per riscaldare gli ambienti o cucinare i cibi, oppure se trasformati, mediante processi fisico-chimici o biochimici, forniscono biocarburanti come il bioetanolo (estratto soprattutto dalla canna da zucchero e dal mais) o il biodiesel (ottenuto principalmente dalla palma, dal colza e dalla soia) impiegati rispettivamente come sostituti della benzina o del gasolio nei mezzi di locomozione.

Gli indiscussi vantaggi derivanti dall’utilizzo dei biocarburanti (ad esempio, un basso impatto ambientale, una autosufficienza energetica, un bilancio tra emissione e fissazione del diossido di carbonio pari quasi a zero, ecc.) hanno condotto, negli ultimi decenni, ad un incremento della loro produzione che ha raggiunto nell’anno 2009 quasi 90 milioni di tonnellate. Nonostante, quindi, i miglioramenti economico-ambientali che ne derivano alcuni scienziati hanno affermato che la produzione di queste merci è insostenibile a causa degli effetti negativi sugli ecosistemi naturali, sull’approvvigionamento alimentare, soprattutto dei paesi in via di sviluppo, ecc.

Queste problematiche, pertanto, hanno stimolato gli studiosi a cercare nuove tecnologie che permettessero di ottenere biocarburanti con un minor impatto ambientale e sociale. Così, prendendo spunto dalla teoria sull’origine organica del petrolio e dalle ricerche svolte negli ultimi cinquant’anni, sono state individuate le alghe come materia prima per ottenere biocarburanti come biodiesel, per spremitura e successiva reazione di trans-esterificazione; etanolo, per fermentazione della componente amidacea; biogas, per decomposizione anaerobica; una miscela di combustibili liquidi, solidi e gassosi frazionabili per pirolisi e idrogeno mediante coltivazione di specie “dedicate”, in grado di produrre tale gas.

La biomassa vegetale marina è rappresentata principalmente da due importanti gruppi: le macroalghe e le microalghe. Le prime, di grandi dimensioni, sono impiegate in tutto il mondo sopratutto come alimenti, fertilizzanti o per l’estrazione di sostanze utilizzate nella cosmesi o nell’industria farmaceutica; le seconde, invece, sono organismi unicellulari adoperati soprattutto nella nutrizione degli avannotti in acquacoltura e nella produzione di integratori o adittivi alimentari come il β-carotene e l’axantina.

Sebbene sia possibile ottenere biocombustibili sia dalle macroalghe sia dalle microalghe, a partire dal 2000 gli studi si sono concentrati su questi ultimi vegetali e, in particolare, sulla produzione di biodiesel in quanto: si riproducono velocemente (raddoppiano il loro peso in poche ore), mostrando elevate rese in biomassa (fino a 70 t/ha per anno); contengono una cospicua quantità di sostanze grasse (fino al 50% del loro peso secco); possono essere coltivati su terreni marginali in modo da non compromettere le produzioni agricole destinate all’alimentazione umana.

Secondo alcune stime sarebbero necessari solamente 6 milioni di ettari di superficie terrestre (pari allo 0,4% dei terreni agricoli mondiali) coltivati a microalghe per soddisfare la domanda globale di biodiesel.

I primi studi sulla possibilità di coltivare le microalghe per fini energetici risalgono alla fine degli anni Quaranta del secolo scorso quando Hans Gaffron individuò una microalga, del genere Scenedesmus, in grado di produrre idrogeno in condizioni di anaerobiosi. Qualche anno più tardi furono scoperte altre microalghe (Chlamydomonas spp.) e organismi marini (Rhodospirillum rubrum) in grado di svolgere lo stesso processo. Le ricerche proseguirono ed alcuni scienziati osservarono che le microalghe potevano accumulare grosse quantità di olio e che era possibile ottenere biogas dalla loro fermentazione anaerobica. Tuttavia, il basso costo dell’energia ottenuta dai combustibili fossili relegò queste indagini ai soli laboratori scientifici.

Il rinnovato interesse per queste scoperte avvenne durante la prima crisi energetica dei primi anni Settanta del secolo scorso quando il ministero americano dell’energia (DOE – Department of Energy) mediante i suoi laboratori (SERI - Solar Energy Research Institute, oggi NREL - National Renewable Energy Laboratoy) avviò uno specifico programma di ricerca (Aquatic Species Program – ASP) che, rifacendosi agli studi pregressi, impiegava i reflui urbani per la crescita delle microalghe che erano poi trasformate in biogas. Gli esiti positivi di questo esperimento e la constatazione delle elevate quantità di olio contenuto nelle microalghe spinsero gli studiosi del SERI ad utilizzarle la biomassa marina anche per ottenere biodiesel. Nonostante i brillanti risultati ottenuti (furono selezionate circa 3000 specie ricche in grassi, migliorate le tecnologie di coltivazione, ecc.) il progetto fu sospeso nell’anno 1996, in quanto i fondi destinati a queste indagini furono trasferiti verso nuove ricerche che riguardavano la produzione di etanolo da cellulosa.

I risultati conseguiti nel programma ASP hanno, però, rappresentato una preziosa fonte di informazioni per gli studiosi che hanno, in seguito, affrontato tali tematiche.

Oggi, infatti, in tutto il mondo sono stati avviati progetti per la realizzazione di impianti per la coltivazione intensiva da microalghe e l’estrazione dell’olio sebbene, a differenza di quanto avvenuto in passato, anche i privati partecipano attivamente alle ricerche per miglioramento delle tecnologie di produzione. Esistono, infatti, aziende nazionali ed internazionali che forniscono biodiesel “marino”, oppure che costruiscono e/o commercializzano strumentazioni per la crescita di tali microrganismi. Tuttavia, a causa degli elevati costi capitali e di gestione degli impianti non è stata ancora avviata la fase di produzione commerciale. Lo sviluppo su scala industriale di queste tecnologie contribuirà a ridurre la dipendenza dalle fonti energetiche non rinnovabili di molti Paesi e favorirà la diffusione di biocombustibili realmente sostenibili.

Le principali caratteristiche delle microalghe e le tipologie di impianti di coltivazione

Come detto, le microalghe sono organismi vegetali marini unicellulari (fitoplancton) con dimensioni generalmente inferiori ai 30 μm che presentano buone rese in biomassa (50-70 t/ha) grazie alla loro elevata velocità di duplicazione (il raddoppio del peso avviene in 12-24 ore secondo le specie, mentre le cellule sono in grado di compiere la divisione cellulare in 3,5 ore). Da un punto di vista tassonomico esse possono essere suddivise un tre gruppi principali: le alghe verdi Chlorophyta, che prediligono vivere nelle acque dolci; le diatomee (Bacillariophyta), che vivono negli ambienti marini e sono caratterizzate da un rivestimento siliceo; le coccolitoforidi dal guscio calcareo e dall’elevato concentrazione in lipidi (30-50% del peso secco).

Comunemente questi microrganismi presentano un contenuto di proteine, carboidrati e grassi che varia notevolmente secondo le specie e le caratteristiche dell’ambiente in cui crescono: i lipidi, ad esempio, sono compresi tra un minino dell’1 % ed un massimo del 40 % del loro peso secco. Tali quantità possono variare in relazione alle condizioni di allestimento delle colture e alla temperatura e salinità dell’acqua così, quando le alghe unicellulari crescono in situazioni di carenza di sostanze nutritive (come l’azoto, silicio, ecc.) o in un mezzo acquoso ricco di cloruro di sodio, possono incrementare la resa in olio ad oltre il 70 % del loro peso secco. Sono proprio le altissime rese in sostanze grasse che rendono questi vegetali più competitivi delle piante oleaginose tradizionali: ad esempio, mentre da un ettaro di palma da olio, la coltura oleaginosa a più alto rendimento in grasso, è possibile recuperare circa 6.000 litri di prodotto, dalla stessa superficie coltivata a microalghe è possibile ottenere quasi 20.000 litri di olio.

I primi esperimenti di “coltivazione intensiva” di biomassa algale avvennero negli anni Cinquanta del Novecento quando alcuni ricercatori pubblicarono diversi lavori scientifici sulla crescita delle microalghe in impianti pilota che, collocati all’aperto, utilizzavano i reflui urbani come fonte nutritiva. Da questi importanti studi si è poi sviluppata la tecnologia di coltivazione degli open pond, attualmente in uso negli Stati Uniti d’America, Cina, India, ecc., per la produzione commerciale della “spirulina”, una microalga usata come integratore alimentare in tutto il mondo. Gli impianti sono costituiti da una o più vasche di forma ellittica (con una estensione che può raggiungere i 5000 m2 e una profondità tra i 15-30 cm) collegate tra loro. Per alimentare le alghe s’impiegano sali minerali oppure reflui urbani e/o gas (in particolare anidride carbonica e ossidi di azoto) emessi da una centrale termoelettrica o da un cementificio posti a pochi metri di distanza. Le microalghe, coltivate in questo modo, sono un vero e proprio “serbatoio ecologico di anidride carbonica” in grado di trasformare 2 kg di CO2 in 1 kg di biomassa vegetale. Inoltre un’elica, in continuo movimento, evita l’accumulo delle alghe sul fondo, assicurando una sufficiente quantità di luce per lo svolgimento della fotosintesi clorofilliana. Strutture simili sono i raceway ponds, bacini di maggiore estensione e profondità degli open ponds, nei quali le alghe unicellulari seguono percorsi simili a canali circolari.

Queste installazioni sebbene siano costituite da semplici strumentazioni presentano l’inconveniente di mantenere mutevoli i parametri ambientali come la temperatura, la concentrazione salina e la presenza dei gas disciolti nell’acqua. Ad esempio, il volume dell’acqua può diminuire a causa dell’evaporazione oppure aumentare per le precipitazioni, mentre la temperatura può seguire le escursioni termiche giornaliere e stagionali. La produttività, poi, può ridursi per l’attività di alcuni parassiti o predatori che contaminano le acque: per ovviare a questo inconveniente spesso si coltivano le microalghe in ambienti con elevata salinità. Questo accorgimento, però, se da un lato evita la competizione con le altre specie acquatiche dall’altro limita le varietà di alghe che possono essere impiegate nel processo e rende salsi i terreni su cui sorgono gli impianti.

Così, per ottenere rese in biomassa più elevate, coltivare anche varietà algali che prediligono concentrazioni saline più basse, mantenere costanti le variabili ambientali ed impedire la contaminazione di altri microrganismi sono stati proposti i fotobioreattori, strutture chiuse e trasparenti nelle quali il fitoplancton non è a contatto diretto con l’ambiente esterno e la radiazione luminosa raggiunge i microrganismi acquatici attraverso le pareti oppure mediante fibre ottiche o “collettori solari” (particolari specchi che convogliano la luce sui fotobioreattori) in forma concentrata.

Attualmente sono disponibili differenti modelli sebbene tutti i bioreattori possono essere ricondotti a quattro tipologie fondamentali, quali: a colonna (bubble columns), grossi cilindri posti verticalmente, realizzati in vetro o plexiglas; a tubi (tubular reactors), simili ai precedenti ma caratterizzati da un diametro inferiore delle condutture, disposte orizzontalmente od obliquamente; a pannelli (flat panels), vasche in vetro con una faccia molto più estesa dell’altra e collocate in successione; a sacco (plastic bags), grandi buste di plastica trasparente di forma varia. Queste strutture possono essere sistemate in spazi interni (indoor), come ad esempio serre, oppure collocati all’aperto (outdoor) direttamente sul terreno o su apposite piattaforme.

I primi prototipi di fotobioreattori sono stati costruiti nei primi anni Cinquanta del novecento in Giappone e negli Stati Uniti d’America (USA). Tra questi il più conosciuto è quello installato sul tetto del Massachusett Institute of Technology (MIT) negli USA, composto da tubi in polietilene distesi sul pavimento nei quali cresceva un’alga del genere Chlorella. Tuttavia, l’elevato costo di realizzazione e di gestione dell’impianto, oltre alle basse rese in biomassa, non consentirono lo sviluppo di questa tecnologia.

Trent’anni dopo, però, i fotobioreattori sono stati riproposti grazie ad alcune fondamentali modifiche (ad esempio un riciclo interno dell’acqua) che ne hanno migliorato le prestazioni (maggiore produzione, riduzione del rischio di contaminazione di specie parassite, controllo più accurato dei parametri chimico-fisichi del mezzo di coltura, ecc.), rendendo tali installazioni molto più efficienti rispetto al passato. Un prototipo di questo tipo è stato ricollocato, quarant’anni dopo, sul tetto del celebre centro di ricerca statunitense. Esso è costituito da una trentina di tubi in policarbonato, di sezione circolare (diametro 10-20 cm) disposti a formare un triangolo, nei quali le microalghe crescono in un’opportuna soluzione salina. I due lati più corti sono collocati in ombra, mentre quello più lungo è esposto alla luce del Sole, in modo da consentire le reazioni biochimiche di fotosintesi.

I reflui gassosi, ricchi di CO2 e ossidi di azoto e provenienti dall’impianto termoelettrico attiguo, sono immessi dal basso per permettere il continuo movimento della biomassa vegetale che, raggiunta la densità massima di crescita, è raccolta e inviata alla fase di estrazione dell’olio. La massa algale residua è sottoposta ad essiccazione, mediante il calore di rifiuto della centrale, per poi essere impiegata come combustibile solido nella stessa centrale elettrica. Inoltre, per evitare che si raggiunga una elevata concentrazione di ossigeno all’interno dei tubi, compromettendo la produzione di biomassa vegetale, il fotobioreattore è dotato di un degassatore. Questo impianto è in grado di ridurre l’86% degli ossidi di azoto e l’82% dell’anidride carbonica dalle emissioni gassose provenienti dall’impianto termoelettrico e di produrre giornalmente circa 400 kg di biodiesel (pari a oltre 450litri) e meno di 1 t di biomassa secca.

Nonostante i miglioramenti tecnici apportati ai fotobioreattori essi continuano ad avere un elevato costo e una gestione più complessa e dispendiosa rispetto agli open pond. I diversi impianti commerciali costruiti nel mondo (paese: Israele, specie coltivata: Haematococcus pluvialis, merce ottenuta: astaxantina; paese: Germania, specie coltivata: Chlorella spp., merce ottenuta: integratore alimentare; paese: Cina, specie coltivata: Spirulina platentis, merce ottenuta: integratore alimentare), infatti, sono falliti proprio a causa dei problemi tecnico-economici.

L’estrazione dell’olio e la produzione di biodiesel da microalghe

Una volta terminata la fase di crescita, quindi, i microrganismi sono raccolti e centrifugati per separare da una parte l’acqua ancora presente e dall’altra recuperare la biomassa vegetale per l’estrazione dei lipidi. In alcuni casi per risparmiare soldi ed energia ci si può limitare ad una semplice filtrazione su letti percolatori o su adatti setacci dotati di maglie molto strette. L’acqua rimossa, ancora ricca di nutrienti, è rinviata nelle vasche o nei fotobioreattori per la coltivazione di nuova biomassa algale.

Segue la fase di estrazione vera e propria, dalla quale si ottiene da una parte l’olio e dall’altra un panello (cake), costituito dalle microalghe ormai prive della componente grassa. Questa operazione può avvenire semplicemente per spremitura a freddo, con recupero del 70-75 % di olio oppure con un adatto solvente (benzene, etere di petrolio, cicloesano, ecc.) immiscibile in acqua, con rese fino al 100%. Poiché il cake non trattato con solvente è ancora ricco dei preziosi acidi grassi polinsaturi (ω-3 e ω-6), delle proteine e dei carboidrati può essere venduto alle aziende agricole come mangime per il bestiame; quello trattato con solvente, invece, avendo una qualità nutritiva più scadente, si può sottoporre a trattamenti anaerobici, per ottenere biogas (con rese di 0,15 – 0,65 m3/kg biomassa secca), o aerobici per produrre etanolo.

Poiché le fasi di separazione incidono considerevolmente sul costo finale del carburante sono in fase di studio alcune soluzioni tecniche come l’estrazione dei lipidi con ultrasuoni, con impulsi elettrici (Live Extraction™) o elettromagnetici (Quantum FracturingTM), che permettono di economizzare l’intero processo. Con la tecnologia "live extractionTM", ad esempio, il rilascio dell’olio avviene con l’invio di deboli correnti elettriche nelle soluzioni contenenti le cellule algali: in questo modo i microrganismi marini non sono danneggiati e possono continuare a crescere e riprodursi (per maggiori informazioni si rimanda al sito web http://www.originoil.com).

L’olio una volta estratto può essere usato tal quale nei motori diesel convenzionali, sebbene, generalmente, per migliorarne le prestazioni e renderlo simile, se non migliore, al biodiesel standard è sottoposto ad un processo di trans-esterificazione (in pratica si fa reagire l’olio con un alcol).

Il costo per produrre biodiesel da microalghe è valutato, nel 2009, a seconda della tecnologia utilizzata fra circa 3 $/litro e 8 $/litro. Tali valori sono notevolmente superiori a quello che si spende per ottenere l’olio di palma (poco più di 0,6 $/litro), considerato il più economico sul mercato: allo stato attuale, quindi, il biodiesel da microalghe non è ancora economicamente conveniente, sebbene la realizzazione di una “bioraffineria” potrebbe contribuire a ridurne il prezzo. In questo caso il fitoplancton, oltre che per produrre biodiesel, potrebbe essere impiegato per depurare i gas emessi dalle centrali termoelettriche e le acque reflue dei centri abitati.

Inoltre dai sottoprodotti dei processi di estrazione (cake), si potrebbero ottenere sostanze per l’industria cosmetica, farmaceutica e mangimistica, ecc.. Anche la tecnica dell’ingegneria genetica potrebbe aiutare a rendere vantaggiosa la produzione di “biodiesel marino”, attraverso la “creazione” di specie ingegnerizzate in grado di incrementare la resa in biomassa e olio, di migliorare la resistenza dei microrganismi alle temperature estreme, di accrescere la produzione di biomassa anche in vasche densamente popolate e di favorire il processo di bioflocculazione. Ad esempio, per accrescere la produzione della biomassa vegetale marina si sta studiando la possibilità di introdurre la via metabolica degli acidi crassuleici nel genoma delle alghe unicellulari: in questo modo le microalghe sarebbero capaci di fissare l’anidride carbonica anche di notte.

Sebbene, però, alcuni esperimenti di manipolazione genetica siano in fase di sviluppo, per il momento non è possibile ottenere con questa tecnologia ceppi algali ad elevata resa in biomassa e in olio, a causa della mancanza di una conoscenza completa dei geni che regolano questi meccanismi e che portano alla sintesi dei lipidi all’interno delle cellule algali. Occorre evidenziare, però, che lo sviluppo futuro di microalghe geneticamente modificate ad elevata produttività potrebbe rivelarsi pericoloso in quanto, un loro rilascio accidentale nell’ambiente rischierebbe di “soffocare” gli habitat lacustri di tutto il mondo a causa dell’eccessiva crescita.

Attualmente la maggior parte delle aziende che operano nel settore della vendita dei fotobioreattori e della produzione del biodiesel da microalghe sono statunitensi sebbene diverse società europee stanno utilizzando le potenzialità energetiche offerte da questi microrganismi. L’Olanda, ad esempio, è una delle nazioni che negli ultimi tempi ha fatto “passi da gigante” in tal senso, l’impresa olandese Algaelink N.V., che commercializza fotobioreattori e dispone di stabilimenti di produzione di microalghe in Spagna, ha firmato un accordo esclusivo con la compagna aerea “Air France-KLM” per avviare un progetto pilota sullo sviluppo di un “jet fuel” ottenuto dalla miscelazione del biodiesel “marino” con il carburante convenzionale. In Italia è presente la “Fotosintetica & Microbiologica S.r.l.” un’azienda nata da uno spin-off tra l’Università di Firenze e una società, la Sogesca S.r.l. di Padova, le cui principali attività sono la consulenza tecnica e la vendita di fotobioreattori e di inoculi di microalghe.

Nel nostro paese sono soprattutto le regioni meridionali che, grazie al clima mite e alla conformazione delle coste, possono diventare un luogo ideale per ospitare la produzione energetica di alghe unicellulari. L’ENI ad esempio ha recentemente costruito, in Sicilia, un impianto pilota che impiega le microalghe per la depurazione dei reflui urbani e per la biofissazione della CO2 emessa da alcune raffinerie di petrolio presenti sul territorio; in una fase successiva della ricerca, l’azienda valuterà la possibilità di convertire la biomassa vegetale marina in biodiesel e/o in altri biocombustibili.

In provincia di Lecce, qualche anno fa, un’altra impresa privata ha proposto l’installazione di tunnel di plastica su circa 5.000 ettari in cui far crescere questi microrganismi marini per poi utilizzarli come combustibile nella centrale termoelettrica di Brindisi. L’insostenibilità del progetto e l’opposizione della maggior parte dell’opinione pubblica locale hanno bloccato la realizzazione del progetto. Anche il successivo piano proposto dalla stessa impresa, che prevedeva la produzione di biodiesel da microalghe in prossimità delle centrali elettriche esistenti nella regione, è fallito.

La Puglia, nonostante gli avvii negativi, possiede le potenzialità per diventare un distretto bioenergetico per la produzione di biomassa marina: ad esempio, le numerose aree lagunari che caratterizzano questa regione come quella di Lesina e Varano o di Margherita di Savoia rappresentano zone in cui sviluppare la coltivazione di microalghe. Il panello residuo, poi, potrebbe essere utilizzato per l’estrazione di alcune importanti sostanze impiegate nell’industria farmacologica ed alimentare, oltre che come mangime per il bestiame. Inoltre, molta della biomassa marina non utilizzata, come la microalga Dunaniella spp. presente nelle saline di Margherita di Savoia o la macroalga Gracilaria verrucosa, che crea problemi di anossia nelle acque del lago di Lesina, potrebbero rappresentare materie prime per l’ottenimento di biocarburanti come biogas o bioetanolo.

La produzione di biocombustibili da microalghe, sembra, quindi, essere una valida alternativa alle colture energetiche dedicate, in quanto più sostenibile e con rese in biomassa più elevate. Tuttavia, sarebbe interessante conoscere se questa tecnologia sia sostenibile e comporti un reale “vantaggio energetico”: ad esempio si potrebbe calcolare l’indice EROEI (Energy returned on energy invested), che permette di valutare se l’energia contenuta in un chilogrammo di “biodiesel marino” sia maggiore di quella spesa per produrlo. Le sfide per il prossimo futuro sono, quindi, il miglioramento tecnologico per ottenere specie con maggiori rese in biomassa e olio, la risoluzione dei problemi tecnici relativi al funzionamento degli impianti (fouling, contaminazione del mezzo di coltura, controllo dei parametri operativi, ecc.) e la valorizzazione commerciale dei sottoprodotti. Ciò comporterà una riduzione dei costi di capitale e di gestione consentendo la produzione su vasta scala di biocarburanti da microalghe, come il biodiesel, da impiegare per autotrazione o per il trasporto aereo.

Nessun commento:

Posta un commento