V. Amicarelli *, T. Gallucci *, G. Lagioia * e V. Dimitrova **
* Università di Bari
** Economics University of Varna, Bulgaria
Questo tipo di approccio ha caratterizzato una larga parte della produzione scientifica nazionale ed internazionale. In particolare le attività di ricerca del prof. Nebbia e di tutto il Dipartimento di Scienze Geografiche e Merceologiche dell’Università di Bari, fin dagli anni ’60, hanno riguardato la descrizione e la valutazione delle interazioni tra disponibilità di risorse naturali e il sistema produttivo.
Più di recente, il dibattito scientifico internazionale ha suggerito l’uso dell’impronta idrica o “water footprint” (WF) definita come la quantità di acqua utilizzata e/o inquinata durante tutte le fasi di produzione di beni e servizi consumati da un individuo, da un gruppo di individui o da una nazione. L’impronta idrica può quindi essere calcolata per una persona, un gruppo ben definito di persone (una famiglia, una città, una nazione), per un’attività economica ed anche per una singola merce o servizio. In ogni caso l’indicatore si propone come uno strumento per la gestione meno insostenibile delle risorse idriche. In particolare esso è utile per l'analisi dello stato di pressione di tali risorse e per il ripristino di un equilibrio (sostenibile) che si possa mantenere a lungo nel tempo ovvero, tra disponibilità di acqua dolce, modelli di consumo, imprese e politiche di governo.
Il concetto di “impronta idrica”, introdotto nel 2002 dal professor Arjen Hoekstra, ha subito ricevuto attenzione a livello internazionale perché considerato un indicatore multidimensionale. Esso, infatti, non si limita a determinare il costo totale in acqua di una merce o di un servizio (concetto di acqua virtuale) ma ne specifica l’origine (acque piovane, superficiali o di falda) e il luogo nel quale è avvenuto il prelievo. Inoltre questo indicatore include e specifica l’inquinamento della risorsa perché considera l’acqua necessaria al ripristino delle caratteristiche quali-quantitative iniziali.
L’indicatore è composto da tre componenti: green water, blue water e gray water. Il primo si riferisce alle precipitazioni (utilizzate ad esempio per la produzione di biomassa), il secondo considera le acque superficiali e sotterranee necessarie alla produzione e al consumo di beni e servizi ed, in fine, il terzo componente si riferisce all’inquinamento calcolando il volume di acqua di diluizione necessaria al ripristino di specifici standard di qualità.
Obiettivo di questo lavoro è stato l’applicazione di questo indicatore ad un caso concreto per valutarne la funzionalità ed utilità. Con tale scopo si è quindi analizzato il settore dell’olio extravergine di oliva, molto rilevante per il nostro paese. L’Italia, infatti, è il secondo produttore mondiale, uno dei maggiori consumatori e contemporaneamente un grande esportatore (soprattutto di oli pregiati) ed importatore (dalla Spagna e dalla Grecia). L’analisi effettuata ha riguardato un arco temporale di quattro anni ed ha interessato non solo il nostro paese ma anche la Spagna e la Grecia quali maggiori mercati di riferimento per le importazioni ed esportazioni italiane.
L’impronta idrica stimata per la produzione di olio extravergine di oliva in Italia risulta pari a 2.500-5.500 m3 di acqua per t di olio prodotto (m3/t). In particolare l’incidenza dei tre componenti è la seguente:
green water 165-2.200 m3/t
bleu water 925-935 m3/t
gray water 1.450-2.350 m3/t
Sulla base dei risultati ottenuti, è stato possibile illustrare gli impatti associati al settore oleario italiano sulle risorse idriche nazionali:m quanta acqua è necessaria per la produzione complessiva di olio d'oliva nell’arco temporale osservato (1.700-3.700 Mm3), quanta acqua lascia virtualmente il nostro paese attraverso l'esportazione di questo prodotto (508-1.095 Mm3) e quanta ne arriva con le importazioni (2.400-4.100 Mm3) e quali sono le criticità del sistema produttivo oleario nazionale sono alcuni degli interrogativi cui è possibile rispondere utilizzando questo indicatore.
I risultati ottenuti sono utili sia per le aziende, perché evidenziando i punti critici del ciclo produttivo ne possono migliorare l’efficienza, sia per i decisori pubblici impegnanti nella programmazione di nuove politiche di sviluppo economico e di salvaguardia delle risorse naturali.
L’articolo completo sarà pubblicato sulla rivista (IJSE) International Journal of Sustainable Economy, vol. 3, n. 4 (2011).
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