sabato 22 settembre 2012

Il pile

Nuovo Consumo, 14, (149), p. 15 (settembre 2005) 

Giorgio Nebbia nebbia@quipo.it

L’economia italiana è in crisi: importiamo a basso prezzo merci, tessuti, poltrone, materiale elettronico, e anche prodotti agricoli --- beni che finora abbiamo prodotto e venduto in tutto il mondo con successo. Si cercano e propongono rimedi, filtri alle importazioni, incentivi alla produzione italiana, ma, a mio modesto parere, alla crisi italiana contribuisce anche la limitata conoscenza, a livello popolare e diffuso, proprio della produzione delle merci; la pubblicità esalta i vantaggi di ciascuna marca e il prezzo sempre più basso e le prestazioni, ma troppo poco viene messo in evidenza il "contenuto" di lavoro e di innovazione fornito dai milioni di lavoratori e dalle migliaia di imprese diffuse nel territorio italiano. Si esalta la moda nel campo tessile o del cuoio, ma ben poco si parla dell'innovazione nei tessuti o nella concia o nella colorazione dei manufatti.

Io sogno un giorno in cui nelle prime pagine dei quotidiani e dei settimanali, in apertura dei telegiornali, si racconterà che la tale ditta del tale paese ha scoperto e brevettato un nuovo processo di colorazione dei tessuti, un nuovo processo di filatura che ha questo o quest'altro vantaggio; gli stilisti faranno poi la loro parte, ma tutto comincia nelle fabbriche e nei laboratori chimici.

A proposito di fibre e tessuti mi viene in mente l'entusiasmo che ha accompagnato in passato alcune innovazioni; penso alle fibre artificiali cellulosiche --- viscosa, bemberg, all’acetato di cellulosa --- all’invenzione delle fibre sintetiche a cominciare dal nylon inventato dal chimico americano Carothers nel 1938, al polipropilene sintetizzato dall’italiano Giulio Natta mezzo secolo fa. Lo studioso tedesco Wolfschmidt ha di recente analizzato come le innovazioni sono state accolte nella stampa popolare dei vari paesi nel corso del Novecento e come il successo economico dipenda anche dalla conoscenza diffusa dei loro aspetti tecnico-scientifici.

Un recente esempio è offerto dalla "rivoluzionaria" invenzione di un tessuto peloso, che è diffuso anche da noi col nome di "pile" (pronunciato "pail", che vuol poi dire in inglese "pelo", in francese "poil"), inserito dal diffuso settimanale americano "Time" fra le 100 "cose" importanti del XX secolo..

C'era nel Massachusetts, nella cittadina di Lawrence, una filanda vecchia di duecento anni, Malden Mills, di proprietà di un certo Feuerstein, abbastanza in crisi. Nel 1981 Feuerstein mise a punto un nuovo processo capace di trasformare le fibre sintetiche di poliestere in un tessuto, peloso, appunto, capace di trattenere fra le fibre una grande quantità di aria, che perciò si rivelò un isolante termico migliore e più leggero della lana. Impiegato dapprima per indumenti sportivi, facile da lavare e asciugare, ebbe ben presto successo internazionale anche in molti altri campi come pullover, coperte, eccetera. Feuerstein costruì una fabbrica modello, progettata con grandi finestre, luminosa, organizzò servizi sociali per i 3000 operai e l'impresa, come ricordavo, fu esaltata nei grandi mezzi di comunicazione americani.

La Malden Mills fu distrutta nel dicembre 1995 da un grande incendio; Feuerstein avrebbe potuto piantare lì tutto, lasciare i 3000 lavoratori senza lavoro, in una cittadina che dipendeva quasi interamente dalla filanda, e ricostruire altrove; decise invece di pagare lo stipendio intero a tutti i dipendenti nei due mesi necessari per la ricostruzione e riavviò la fabbrica, anzi con un aumento della produzione. Più tardi per Feuerstein, imprenditore e manager anomalo nel XXI secolo, le cose non andarono bene; le banche gli ridussero il credito e diventarono proprietarie dello stabilimento; ma i bilanci non sono l'unica cosa che conta; conta la produzione di beni utili e l'innovazione e la fede nella creatività e nel lavoro e in questo la storia del pile ha molto da insegnare (Sul manager Feuerstein e la sua avventura vengono scritti libri e tesi di laurea).

E in Italia, in questi anni di crisi, siamo sicuri che l’Università, gli studiosi, i mezzi di comunicazione, stiano facendo di tutto per indurre le giovani generazioni a scoprire e attuare nuove soluzioni, a guardarsi intorno per riconoscere nuovi bisogni, nuovi mercati, nuove merci ? In un mondo in cui sembra dominare l’immagine, il virtuale, l’immateriale, forse la ripresa economica passa invece proprio dal lavoro capace di produrre i beni materiali.


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